Testo fisso

 Per la politica dell'ambiente                                   Chi lotta può perdere,chi non lotta ha già perso! Guevara                                          

“PERCHE' LA VILLALTA NON VIVA NEL PASSATO”

 

 

villalta2 640x474Fattezze e sembianze  che risalgono il tempo, volti che rimandano lontano, tratti che si sovrappongono ad  altri per  confrontarsi nello schedario della memoria ed avere  così un  nome  o una storia, per ritrovare  una presenza  o la continuità di  vicende umane radicate nelle generazioni che nel tempo hanno abitato questa città.

 

Anche questa è una lettura della festa della Villalta, un guardare a ritroso per risaldare i ricordi,  ricomporre  immagini disordinate , ricambiare con un sorriso un saluto e dire con lo sguardo: “si sono io , ti ho riconosciuto”.

 

E' la festa di una comunità che ritrova se stessa o forse  quello che è stata,  per ricombinarsi  nella convivialità  di un percorso che spesso le vicende della vita hanno interrotto;  la festa come  un ponte per  riunire i molti di allora con i sempre meno che  ancora ricordano,  ma in tutti il desiderio di  cercare, di trovare, di ricongiungere  generazioni che rischiano di perdersi o forse inconsapevolmente già sono lontane.

 

Un impegno grande come il tempo trascorso, un tragitto non del tutto  interrotto, solamente  sfilacciato , liso ma non ancora lacerato;  questo appuntamento trova  allora modo di rammendare  la tela comune.

 

L'atipicità della festa risiede nelle sue due anime , nel contrasto tra il desiderio di far rivivere tratti di vita lontani, di recuperare  attraverso nomi, fatti, episodi , racconti, una memoria che si ripropone  nella testimonianza  di coloro  che furono i protagonisti di un tempo e in una aneddotica pittoresca , spesso  ilare,  qualche volta tragica .

 

Poco rimane di questa antica anima ,  più per  il rimpianto e la nostalgia  che per  le cose risparmiate  dal tempo,  ancor meno   sopravvive  delle vecchie atmosfere e  ormai nulla che testimoni la reale condizione di una civiltà contadina.

 

Per l'inadeguatezza delle parole, è del tutto  improponibile a quanti non l'hanno vissuta, ogni spiegazione  della vita   di allora , la descrizione di quella dura quotidianità, fatta di sacrifici, rinunce. Nella Villalta di allora era tangibile la fatica del vivere contrassegnata dal rumore degli zoccoli di legno ( le sgalmere) sul selciato e quello secco dei ferri a mezzaluna messi a protezione delle punte e dei tacchi delle scarpe. E su tutto il rumore dei bambini per i quali la seconda casa era la strada e l'unica “occupazione” organizzata era offerta dall'Oratorio con la somministrazione della “ Merenda”, pane e formaggino Roma o Cioccolatina con annessa figurina (più ambita per quest'ultima  che per la qualità del cioccolato).

 

Irrecuperabili le sensazioni e quel misterioso legame che plasmava una comunità ricca di solidarietà, compassione, mutualità e partecipazione. Per loro , si, la Villalta possedeva questo che ora definiamo fascino; un crogiolo di fermenti, sensazioni e animazioni ritrovabili solo nella filmografia di Olmi e Bertolucci.

 

Un tessuto edilizio gremito  e asfissiante, un affollarsi non di rado  promiscuo,  una stratificazione di attività, censo, ricchezza e povertà che convivevano senza  stridenti e marcate differenze di classe. Vi conviveva il drammaticamente  povero con il piccolo borghese, chi traeva sostentamento da qualche macilenta capra con chi campava con lo stentato lavoro nel bosco o con la raccolta stracci, la prestazione giornaliera – “en opra” – si diceva , con  il negoziante, l'artigiano e con il contadino .

 

Tanti, questi ultimi , qualche piccolo proprietario ma soprattutto mezzadri e affittuari  non di rado alla mercé di chi controllava i conferimenti, i dannati di quel carico d'uva  respinto più e più volte  dai notabili delle cantine - tutte rigorosamente private - fino a quando venivano ceduti per poche lire e con  tanta disperazione . E questo fino al provvidenziale avvento della cooperazione.

 

Ancor di più erano i disoccupati,  ragazzi e meno giovani,  in quelli che furono gli anni della “TOT” o dei cantieri scuola – delle case “Minime” - dei lavori pubblici funzionali ad alleggerire il disagio sociale,  di qualche iniziativa  forestale (un “Progettone” ante litteram), della “Refezione” una forma di integrazione alimentare   provvidenziale per molte famiglie e dispensata dal Patronato Scolastico,  anni nei quali tra le richieste più numerose fatte all'anagrafe Comunale , campeggiava quella del “Certificato di Povertà'”! 

 

L' “intellighenzia e la borghesia ”  albergavano più a valle;  il confine della “ Boccabella “  non era solamente toponomastico ma  tangibile e ravvisabile  nei comportamenti. 

 

La vita “quella istituzionale e civile” si alimentava in S. Giovanni con il Municipio, la Scuola Media e il Ginnasio, il Convitto,  l'asilo ( allora si chiamava così in modo figuratamente  molto concreto e reale), la Biblioteca e il Museo (sparito nel nulla), la Farmacia e la Cartoleria, il Barbiere e la  Parrucchiera, il Mercato e il commercio.

 

La Villalta era là,  popolosa,  affollata ,  turbolenta e cupa come appariva a noi bambini della “Bassa”, intimoriti dal fantasticare, resi timidi da infondate  paure  e smarriti  solamente al pensiero di penetrare quel luogo per noi così misterioso.  

 

Impensabile  avventurarsi da soli in quel micromondo  dipendente dalla Città ma nello stesso tempo autonomo, così ricco di umanità e tradizioni,  effervescente e qualche volta violento, più nelle parole che nei fatti.

 

 Era però nella circostanza delle festività religiose e pagane  che  l'appartenenza alla stessa comunità diveniva  più tangibile. Allora  la Villalta si apriva  accogliente, premurosa,  capace di abbellirsi per rendersi  più amabile. I migliori altari che punteggiavano il percorso della processione del Corpus Domini erano li alla Piazzetta del Brusco (o del Pagnoca, ora del Mandolin) , gli addobbi più ricchi erano alle finestre di via Roma e della Villalta e anche nel contrasto più laico del carnevale, la vivacità e l'intraprendenza era patrimonio di quella gente.

 

Figlia di quella civiltà contadina radicalmente estirpata nel volgere dei pochissimi anni nei quali il rione cambiò forma e anima sotto la spinta di un finalmente raggiunto benessere, il cui lascito più doloroso si fissò  nel progressivo spopolamento .

 

L'accresciuta prosperità economica trasmigro' nel desiderio di affrancarsi da un luogo che per quanto circonfuso da una convivialità bella, solidale e folcloristica appariva anche per quello che era: una realtà  dolorosamente povera e inadatta ad una vita che cominciava ad intuire nel fascio luminoso della televisione e resa possibile  dall' accresciuta occupazione nelle prime industrie.

 

Tra la seconda metà degli anni sessanta  e settanta  sorse una nuova Ala, quella che vediamo nella cintura che avviluppa il centro storico  cresciuta con i canoni di allora, villette dignitose possibilmente monofamiliari, case popolari e condomini per accogliere i nuovi nuclei familiari e  con essi l'esodo di una contrada che negli anni ottanta raffigurava  solamente il luogo simbolo  di come eravamo.

 

Un oblio fortunatamente breve; provvidenziali interventi di recupero, un'accorta politica di valorizzazione, la tenacia di quanti decisero di rimanere e la fiducia di altri che la scelsero la loro residenza, anche  la riconsiderazione di una nuova prospettiva turistica e culturale  ricondussero il rione nel corpo vivo della città.

 

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Ed ora la festa, ma  forse  è riduttivo chiamarla semplicemente festa . Ci sono  questo è vero, la musica e i musicanti, il duo Otto e Barnelli e la lotteria, lo speaker e la passerella dei politici, ma credo sia  qualcosa di più e certamente di diverso. 

 

Sembra forse più una  ricorrenza alla quale augurare una  vita  lunga quanta basta per il passaggio del testimone,  un'occasione per la transizione dalla vecchia alla nuova generazione, dal nucleo originario ai nuovi arrivati,  un' opportunità per ciò che il tempo ci concede di ritrovare e rivivere  e anche il rimpianto di quanti  aggirandosi magari perplessi si pongono  insoluti perché.

 

Le città non muoiono, per quanto possano cambiare, mutare profondamente, le pietre che le formano spesso si scambiano il posto, muta qualche profilo, si ingentilisce qualche angolo e altri ne vanno in rovina, ma non è difficile, ripercorrendo le strade magari deserte risentire suoni, voci, odori, intravedere, riconoscendola  qualche  defilata  figura.

A me è capitato e non credo di essere stato il solo .

Luciano Rizzi

 

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