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La centrale Idroelettrica di Campagnola

 

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Condizioni di Lavoro*

  

Le condizioni di lavoro degli operai addetti alla costruzione dell'impianto di  Ala, come di tutti gli altri impianti idroelettrici dell'epoca, sono ben rappresentate nel libro di Mattia Pelli  "Dentro le montagne".

 

 

libroMattia Pelli ricostruisce la vicenda umana dei lavoratori giunti da tutte le parti d'Italia per lavorare alla costruzione delle centrali. Attraverso la testimonianza di un sindacalista - Rino Battisti -, grazie alla documentazione di archivio, descrive il duro faticare di operai e minatori. Una storia, al tempo stesso, drammatica ed eroica, vissuta a continuo contatto con la morte; un' esistenza dura, spesa tra il rumore delle perforatrici, le pericolose esplosioni delle mine e le baracche fatiscenti, in condi­zioni di vita e lavoro al limite del sopportabile. 

 

Le condizioni di vita e di lavoro degli operai idroelettrici

È la stessa Associazione degli industriali del Trentino a fornire i dati che descrivono questa realtà: nelle imprese edili della provincia nel 1946 lavoravano 3774 dipendenti, mentre nel 1949 questo numero era salito a 7337.

Su Il Proletario divengono allora frequenti gli interventi di Sisinio Tribus in cui vengono descritte le lotte e le questioni relative alla categoria. Dal numero del 24 settembre del 1949 il minatore, colui che lavora allo scavo delle gallerie degli impianti idroelettrici, diventò il protagonista di una rubrica nella quale si affrontavano, oltre alle questioni legate al cantiere e alla fatica quotidiana del lavoro, questioni politiche più ampie.

Ma di edili e dei cantieri idroelettrici comincerà ad occuparsi anche Lotte sindacali, il periodico dei sindacati liberi della provincia, così come Mondo del Lavoro, il mensile delle ACLI trentine.

A colpire è soprattutto le descrizione delle condizioni terribili in cui i lavoratori dei cantieri idroelettrici vivevano (per molti di loro, venuti da fuori, la casa sono le baracche del cantiere) e soprattutto lavoravano, esposti a ogni tipo di pericolo, dalla esplosione imprevista di una mina alla silicosi.

 

 

Scriveva Giorgio Zeni, assistente sociale, raccontando dell’afflusso durante la buona stagione di lavoratori dalle altre province:

 

«[...] non tutti vengono assunti immediatamente e molti, per il continuo afflusso, si trovano senza disponibilità di denaro e devono affidarsi all’assistenza pubblica. I locali disponibili vengono occupati e sovraffollati dai pochi lavoratori in possesso di qualche soldo, mentre gli altri se ne stanno ai margini della strada, finché non capita una persona caritatevole che raccoglie e ospita nella propria casa le decine e decine di lavoratori che mutano quasi giornalmente.»

 


Il dato più evidente, che emerge da questa testimonianza, è il continuo muoversi dei lavoratori, da un cantiere che chiude a un altro che apre, un lavoro dunque sempre in bilico sul baratro della precarietà, i cui benefici erano volatili per l’economia trentina, come volatili erano le conquiste sindacali in questo settore, proprio per la grande mobilità dei lavoratori.

 

 

Scriveva Attilio Rigotti:

 

«[...] L’operaio invece entra in galleria, gli ordini gli sono impartiti con modi duri, magari con parole offensive [...]; vive in mezzo al fracasso delle rivoltelle e delle macchine e dopo otto ore consecutive [...] esce da quell’inferno irriconoscibile. Se c’è acqua esce bagnato fin sulla pelle, infangato da far paura agli uccelli [in mensa] trova la stufa fredda, il pasto mezzo freddo e allora occorre un bicchiere di vino e poi la grappa per riscaldarsi, poi ancora vino e allora addio ragionamenti! [...] Il lavoratore entra in camerata dove ha lasciato i vestiti tutti bagnati, dove le brande sono l’una vicina all’altra tanto da non poterci passare in mezzo. [...] Per lavarsi deve uscire sul piazzale all’aria fresca. I vestiti, i pastrani, gli stivali pieni di sudore vengono messi sopra i fornelli per farli asciugare, e là, in mezzo a quel profumo di dieci, quindici vestiti che asciugano, deve dormire.»

 

003 640x418A vivere in questo inferno, caratterizzato soprattutto dalla presenza continua dell’elemento acquatico, sono giovani di 18, 20 anni, per i quali non esiste nessuna garanzia, nessuna sicurezza.

Un inferno che già nel 1948 era stato descritto da Sisinio Tribus in un articolo su Il Proletario, nel quale il sindacalista si era soffermato sulle disumane condizioni di lavoro nei cantieri di Santa Massenza e Vezzano dopo un articolo de Il Popolo trentino che aveva sollevato il problema e invitato il sindacato a porvi rimedio in qualche modo.

 

 

«[...] XII. Che [la ditta] esige dai minatori due colate per turno e se sulle 8 ore del turno le due volate non sono eseguite non paga il tempo supplementare. XIII. Che non ha fuochini autorizzati: a caricare le mine, a brillarle, a maneggiare la munizione ed a controllare prima che gli operai riprendano il lavoro. XIV. Che nelle gallerie manca l’aria, per mancanza delle tubazioni necessarie. XV. Che la ditta sospende operai del getto per più giorni, senza iscriverli alla cassa integrazione salari.»

 

 

L’origine sociale dei lavoratori dei cantieri

 

Il lavoro di costruzione degli impianti iniziava prima di tutto con la realizzazione delle vie d’accesso ai cantieri e alle baracche dove venivano alloggiati i lavoratori. Nella seconda fase, tre o quattro grandi imprese assicuravano l’esecuzione degli appalti maggiori: le gallerie, il bacino, la centrale e i trasporti di materiale. Le ditte appaltatrici erano quasi sempre le stesse, tra le più importanti la Quadrio Curzio di Milano, la Giolai di Bassano, la Conci di Trento e la Busatti di Belluno: una volta terminata una centrale passavano a un’altra. Il lavoro sui cantieri era quasi sempre organizzato su tre turni, con una sola legge: fare presto.

 

«Gli operai impiegati nei cantieri erano di origine eterogenea, con proporzioni varianti da una costruzione all’altra. I veneti, i bellunesi in particolare, erano quasi sempre in maggioranza, anche i meridionali erano presenti: il resto era costituito da trentini provenienti dalle zone più povere della provincia. [...] quanto alla provenienza sociale, molti erano gli ex-contadini.»

 

002 455x640La questione dell’origine sociale dei lavoratori dei cantieri idroelettrici, a bene vedere, non è questione di lana caprina: il legame più o meno stretto con la campagna e dunque con l’origine contadina, può essere un elemento utile a spiegare la maggiore o minore disponibilità alla lotta sindacale. Per Fait e Zanella gli operai idroelettrici erano in gran parte «lavoratori part-time», nel senso che mantenevano uno stretto legame con la terra: la famiglia aveva spesso dei piccoli appezzamenti di terreno sui quali, nei periodi di inattività tra la fine di un cantiere e l’apertura di un altro, i lavoratori momentaneamente disoccupati tornavano a lavorare per integrare il reddito famigliare. Secondo un’altra interpretazione invece

 

«L’occupazione era sì temporanea, in quanto durava fino alla fine della costruzione, ma una volta completata una centrale si passava ad un’altra [...]. Questi operai, anche se di origine contadina, persero praticamente ogni contatto, anche fisico, con l’agricoltura, se si considera che restavano lontani da casa per tutta la settimana ed anche più.»

 

Anche Rino Battisti non manca di fare notare come, soprattutto con gli operai trentini, per i quali il contatto con la propria origine contadina era più stretto, fosse difficile costruire un percorso di presa di coscienza e di mobilitazione, visto che continuava ad esistere lo sfogo della campagna come elemento integratore del reddito operaio. Vi era però sui cantieri una larga parte di lavoratori che avevano ormai reciso questo legame, in particolare quelli provenienti da altre zone d’Italia, magari dal Sud, che si spostavano da una cantiere all’altro. Erano probabilmente questi i lavoratori più disponibili a lottare insieme al sindacato per il miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Emerge in modo chiaro come i grandi lavori idroelettrici degli anni ’50 portino in Trentino una variegata compagine operaia, fatta di persone provenienti da luoghi diversi e con differenti origini sociali. Un dato che ancora una volta permette di sottolineare la singolarità della situazione in questo particolare settore: l’immigrazione avviene in una provincia ancora chiusa e certamente non attrattiva in altri campi economici e che, anche nel periodo considerato, continuò a fornire braccia alla emigrazione europea. Secondo Aldo Gorfer, sono notevoli le conseguenze sulla popolazione delle valli investite dal fenomeno della «colonizzazione elettrica»:

 

«I lavori idroelettrici furono la prima fonte di lavoro di tipo industriale moderno della valle. Sollecitarono un’immigrazione di manodopera, promossero l’abbandono delle attività agricole convenzionali e il formarsi della figura del contadino-operaio [...].»

 

 

Cordialmente 

 

RL e MC

 

 

I Brani  sono tratti dall'articolo "Il Trentino degli anni '50: dipendenza e sottosviluppo" di Mattia Pelli, autore di “ Dentro le Montagne “.

 

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