Testo fisso

 Per la politica dell'ambiente                                   Chi lotta può perdere,chi non lotta ha già perso! Guevara                                          

La centrale Idroelettrica di Campagnola

 

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Morire di lavoro*

 

 

«Disastrosa era la situazione dal punto di vista della sicurezza. I ritmi di lavoro erano elevati a causa del cottimo e della conseguente competizione tra gli operai [...] Questi fatti, uniti alla concentrazione di numerosi operai in poco spazio e alla carenza di adeguate misure di sicurezza, determinavano il verificarsi di numerosi incidenti sul lavoro, spesso anche mortali. Il discorso della salute poi era sconosciuto ed in effetti la stragrande maggioranza di quanti hanno lavorato nelle gallerie delle centrali è affetto da silicosi, malattia allora accettata come inevitabile.»

 

Bastano queste poche frasi a descrivere la realtà di morte alla quale i lavoratori dei cantieri idroelettrici erano confrontati ogni giorno. La frequenza degli infortuni nel settore idroelettrico trentino è in quegli anni di 2,48 volte quella del complesso delle altre attività industriali e la frequenza degli incidenti mortali è pari a 2,56 volte. Il periodo di avvio dei cantieri idroelettrici è quello più pericoloso, dal momento che si svolgono i lavori di scavo delle gallerie, delle dighe, del montaggio degli impianti, ecc.

 

Tra i motivi principali vi è il sistema di assunzione dei lavoratori che, a causa della forte disoccupazione, porta sui cantieri manodopera poco qualificata, spesso contadini che non hanno esperienza del lavoro in galleria. Elemento negativo è anche la forte rotazione del personale, non addestrato specificamente per un dato compito, con conseguenze intuibili sulla frequenza degli infortuni.

 

Anche l’accentuato ritmo di lavoro fa la sua parte: ritmi di consegna sempre più brevi richiesti alla ditta appaltante e maggiore concorrenza tra le imprese portano a una compressione dei tempi e alla sovrapposizione di lavori diversi, con conseguente diminuzione del fattore sicurezza.

 

Dal punto di vista tecnologico, negli anni 1946-47 la tecnica di lavorazione in roccia è la stessa di quella utilizzata 30-40 anni prima, anche se cominciano a diffondersi innovazioni che rendono il lavoro in galleria un po’ meno pericoloso. Negli anni ’50 si diffonde (anche se con molta lentezza) l’uso di martelli perforatori con iniezione ad acqua, diminuendo la quantità di polvere in sospensione nell’atmosfera, quindi anche il rischio di silicosi e aumentando la visibilità in galleria. Con l’uso del servo sostegno diminuiscono i contraccolpi causati dalla macchina e le conseguenze fisiologiche che comportano, mentre le pale caricatrici hanno sostituito l’uomo nelle gravose operazioni di sollevamento e caricamento del materiale e anche per la fase del getto sono stati introdotti miglioramenti che hanno reso meno pericoloso il lavoro.

 

Mentre nel 1950 lo scavo e la rimozione di un metro cubo di roccia richiedeva circa cinque ore a operaio, sei anni dopo le stesse operazioni ne richiedono in media due. Le cause principali degli incidenti mortali tra il 1952 e il 1954 sono soprattutto la caduta di persone, di materiale e le manovre con i vagoncini che servono a trasportare fuori dalla galleria il materiale di scarto.

 

005Tra i motivi di incidenti gravi vi è senza dubbio l’abituale utilizzo di mine: molto spesso, poi, lo scoppio inaspettato coinvolge un numero elevato di lavoratori. La questione degli incidenti sul lavoro è centrale nel descrivere la situazione del settore durante il periodo della costruzione delle grandi opere, perché illustra più di tante analisi o ragionamenti la compenetrazione di sviluppo e sottosviluppo rappresentato dai lavori per le centrali negli anni ’50 in Trentino. Da un lato i grandi gruppi nazionali dai fatturati miliardari, dall’altra cantieri che sono zone franche, nelle quali il sindacato non può entrare e la vita di un lavoratore ha un valore relativo, dal momento che le sue braccia possono essere sostituite in ogni momento grazie alla elevata disoccupazione.

 

In un articolo del 4 febbraio del 1950, Sisinio Tribus mette la sua «verve» di polemista al servizio della denuncia di questa situazione. Bersaglio dei suoi strali, della sua caustica ironia, è la supposta libertà che riempie la bocca di tanti ma che non è che una pia illusione e che in realtà nasconde una dittatura economica la quale fa sì che i lavoratori abbiano timore nel denunciare le condizioni di insicurezza alle quali il datore di lavoro li costringe. Dopo aver raccontato tre casi di incidenti nei quali la paura del licenziamento agisce come stupefacente sulla coscienza degli operai, egli scrive:

 

«Queste cose avvengono nel Trentino e ne avvengono ben altre di peggiori. Siamo una provincia civile? Dimostriamolo. Un terzo degli accidenti non è dovuto alla fatalità, ed in questa affermazione sono di una modestia condannabile. È ora di finirla. L’ispettorato del Lavoro faccia il suo compito, la Regione assolva il suo. Il terrore che impedisce agli operai di difendere la loro vita, per paura dei licenziamenti, cessi. I licenziamenti devono venire controllati: non ammettiamo che si chiami libertà soltanto quella dei padroni [...]»

 

Proprio la rivendicazione del controllo da parte delle commissioni interne dei cantieri sui licenziamenti, sarà uno dei punti di maggior frizione fra il sindacato e le aziende. Meno di una settimana dopo l’articolo citato Il Proletario ritorna sul problema, con una analisi puntuale delle cause degli infortuni e in particolare sul fatto che i lavoratori non sono messi nelle condizioni di denunciare le situazioni di pericolo, per il divieto fatto alle organizzazioni sindacali di entrare nei cantieri. L’altro ostacolo alla denuncia era il diritto del datore di lavoro di licenziare «senza giusta causa», diremmo noi oggi, gli operai che si fossero battuti per condizioni di maggiore sicurezza, anche grazie all’esercito di disoccupati sempre pronti a sostituire un lavoratore troppo riottoso, così come le liste nere:

 

«In certi complessi esiste il divieto per le ditte appaltatrici di assumere operai provenienti da altre ditte del medesimo complesso, senza previo accordo. Questa misura lega l’operaio come un servo della gleba al suo padrone e rende il licenziamento ancora più temibile.»

 

001 601x480Cause «oggettive» degli incidenti erano invece il lavoro a premio, mezzo per ottenere a buon prezzo alti profitti; i premi di produzione agli assistenti che avevano facoltà di licenziare; la cattiva attrezzatura e la poca preparazione tecnica di alcune ditte.

 

Per discutere di tutti questi problemi e proporre soluzioni, il Sindacato edili della Camera del Lavoro, in accordo con le altre organizzazioni sindacali invitò uomini politici, personalità, giornalisti e sindacalisti ad una riunione apposita allo scopo di affrontare urgentemente le questioni legate alla sicurezza. Sull’Alto Adige venne pubblicato un appello in cui si elencavano in quattro punti le principali cause degli incidenti: il divieto per le organizzazioni sindacali di entrare nei cantieri; il diritto del datore di lavoro di licenziare senza controllo; la disoccupazione e le liste nere. La annunciata riunione si svolse l’11 febbraio del 1950 nella sala del Consiglio Comunale a Trento.

 

 

Dall’incontro esce la proposta di costituire una Commissione contro gli infortuni sul lavoro, di cui avrebbero dovuto far parte la Regione o la Provincia, l’Ufficio del Lavoro, il Corpo degli ingegneri, l’Istituto infortuni, la Cassa Malattia, le organizzazioni sindacali e l’Ispettorato del lavoro, il quale avrebbe così potuto trovare i mezzi, i fondi e il personale necessario per eseguire controlli efficaci sui cantieri. Il 15 dello stesso mese, con un comunicato pubblicato sull’Alto Adige, l’Associazione Industriali risponde alle accuse mosse agli imprenditori dagli edili della CGIL punto per punto, difendendo i propri associati e insieme a loro il divieto fatto ai sindacalisti di visitare i cantieri, il diritto di licenziamento e le liste nere, negando che i lavoratori fossero costretti a restare in silenzio sulle proprie condizioni di lavoro.

 

 

Il comunicato pubblicato dall’Alto Adige è piuttosto interessante, perché permette di mettere in rilievo la concezione del cantiere nella mentalità degli industriali. I sindacalisti non vi possono entrare perché

 

«[...] tale accesso è del tutto incompatibile col principio che esclude dalle aziende industriali gli estranei al lavoro [...] e precisato che tale principio deve essere dagli industriali gelosamente tutelato proprio a garanzia di quella tranquillità che è indispensabile al normale e proficuo svolgimento del lavoro, premesso che il libero accesso è riconosciuto [...] agli organi dell’Ispettorato del Lavoro, non si vede quale utile opera possano fare in merito alla prevenzione sugli infortuni gli organizzatori sindacali.»

 

004 536x480L’idea che emerge da queste poche righe è quella di un cantiere pensato come luogo privato, che non deve essere sottoposto a nessuna regola esterna, se non quella imposta dal datore di lavoro. In questo senso il sindacato è un intruso, che non ha nessun diritto ad intromettersi negli affari dell’azienda. Contro questo modo di interpretare le relazioni aziendali secondo il quale il lavoratore, una volta entrato in cantiere, perde i diritti che gli vengono riconosciuti all’esterno, come quello di organizzarsi sindacalmente, dovrà fare i conti Rino Battisti. Sono parecchi gli episodi dai quali emerge chiaramente la volontà dell’azienda di impedire al sindacato di partecipare a qualsivoglia tipo di trattativa. La conseguenza più drammatica di questo modo di intendere i rapporti aziendali riguarda, ancora una volta, gli incidenti sul lavoro. Molto spesso, secondo la testimonianza dello stesso Rino Battisti, la notizia di un incidente non usciva nemmeno dal cantiere e gli operai comunicavano il fatto al sindacalista a voce o attraverso foglietti scritti a mano. In uno di questi, conservato con cura dal Battisti, si legge:

 

«Bazzoli Prospero di anni 35 con figli 4 da Roncone. Lav. pr. SALCI (c. Buazzo). Rimaneva schiacciato fra due vagoncini, dopo mezz’ora spirava sul Cantiere»

 

Nonostante i risultati ottenuti grazie all’iniziativa sindacale del febbraio 1950 siano modesti, limitati a un dibattito poco incisivo, l’incontro è un ulteriore indizio della forza politica conservata dal Sindacato Edili della Camera del Lavoro, che riesce ad imporre alla LCGIL la propria iniziativa, rendendola così unitaria. Colpisce in questo caso il silenzio della Regione su un argomento, quello degli incidenti sul lavoro, che se affrontato con serietà dall’ente pubblico avrebbe portato probabilmente a uno scontro con gli imprenditori edili presenti sul territorio del Trentino - Alto Adige.

 

Valentini Ferruccio** classe 1924 di Ala  ricorda con questa testimonianza quel lontano periodo.

 

“.....Ero presente al brillamento della prima mina della galleria di collegamento che da Chizzola raggiungeva perpendicolarmente il tratto principale. Era una bretella circa a metà strada tra Mori e Campagnola ed era necessaria per lo sgombero del materiale di scavo. Mi avevano affidato una vecchia auto carretta militare SPA di scarsa capienza, ma con quella feci pochi trasporti, infatti venne sommersa dal carico di una pala di un grosso Caterpillar e mi diedero allora un GM tre assi con il quale provvedevo con altri 10-12 camionisti allo sgombero del materiale di scavo per depositarlo nella zona dell'attuale Zincheria. Ricordo la grande galleria percorribile dai pesanti autocarri Federal , erano dei Dumper, con un cassone di 5 mc. Le volate erano continue circa una ogni 4 ore con una serie di grossi fori che penetravano per oltre 6 metri nella parete, Noi camionisti tra una mina e l'altra dormivamo o meglio riposavamo in una camerata prossima agli scavi, Pronti alla chiamata. Spesso l'attesa era occupata preparando i candelotti di tritolo contrassegnati da precise numerazioni, ma li consegnavamo ai minatori. Eravamo in tanti , la maggior parte proveniva dai grandi lavori ultimati a Malles e in altre zone della Venosta, molti i Nonesi; Ala era sovraffollata di operai e tecnici dei cantieri ed erano ospitati a pagamento presso le famiglie che facevano “Pensione”, così si diceva. Non avevamo protezioni, il fumo era sempre presente, gli aspiratori  c'erano ma non sempre efficienti, i ritmi di lavoro erano alti e non esistevano i sindacati. Dopo sei mesi mi sono licenziato dalla ditta dove lavoravo per non aver voluto pagare una multa data a tutti gli operai del mio turno per il danneggiamento di un nastro trasportatore. Andai poi in un'altra ditta e nel '55 a centrale ultimata fui assunta dall'allora Capo Centrale Betti, del quale ho ancora un buon ricordo. “

                                                  

 

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Poco o nulla rimane delle vicende umane di quanti hanno lavorato alla Costruzione della Centrale di Campagnola e per questo ancor più meritevole di plauso è l'iniziativa per la loro commemorazione, per l'opera  esempio monumentale di efficienza e capacità ma soprattutto per quanti per essa vi hanno lasciato la vita.

 

 

Considerazione finale

 

Un auspicio che questa come tante altre testimonianze del nostro passato non scivoli in quell'indifferenza che  con sempre maggiore frequenza accompagna le attività della Pubblica Amministrazione .

Sarebbe imperdonabile se questo dovesse succedere  per disattenzione, ma assolutamente esecrabile se fosse misconosciuta l'importanza della conservazione della memoria ;  anche di quella che per molte famiglie è ancora Cronaca.

Ben vengano le rimembranze e le rievocazioni di glorie passate, il ricordo e la celebrazione di trascorse virtù purché non si considerino da archiviare fatti come quelli descritti , magari solo perché sono “tristi” e non portano lustro.

  

Cordialmente

 

RL e MC

 

I Brani  sono tratti dall'articolo "Il Trentino degli anni '50: dipendenza e sottosviluppo" di Mattia Pelli, autore di “ Dentro le Montagne “.

 

**testimonianza raccolta il 29.11.2012

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