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Questotrentino

Mensile di informazione e approfondimento
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  1. Lona-Lases: davvero si volta pagina?
    Servizi
    Alle elezioni raggiunto il quorum. Ma contro il pressante sostegno di tutte le istituzioni alla lista che ripropone il vecchio, il 46% della popolazione segue le indicazioni del CLP
    di Walter Ferrari

    Domenica 25 febbraio la comunità di Lona-Lases, o meglio il 54,1 per cento degli aventi diritto al voto, ha deciso di fare “un passo avanti”, come affermano i commenti entusiasti di tutte le forze politiche: un passo avanti si, ma sulla vecchia strada! Il tutto in ossequio all’antico detto: “chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quello che lascia ma non quello che trova” e al più pragmatico imperativo di preservare gli affari (leciti e illeciti) dei soliti noti.

    Tutta la politica trentina (tranne poche eccezioni) ha tirato un sospiro di sollievo all’annuncio che l’avv. Antonio Giacomelli ce l’aveva fatta a superare il quorum, altri avversari non essendoci. Tuttavia segnalo che una ventina di elettori ha lasciato traccia del proprio entusiasmo nel recarsi al seggio, depositando nell’urna scheda bianca o nulla.

    Di fatto la lista “Lona-Lases Bene Comune” ha riportato indietro il calendario al decennio1995-2005,quando la triade Mara Tondini, Piermario Fontana e Letizia Campestrini occupava ruoli chiave nell’amministrazione comunale (sindaci, vice sindaci, assessori) e il cui operato non fu certo all’insegna del bene comune. Un bene comune che la comunità aveva cercato di mettere al centro dell’attenzione proprio interrompendo, nel lontano 1985, il dominio amministrativo dei concessionari di cava.

    L’amministrazione guidata da Vigilio Valentini si trovò subito a fare i conti con minacce intimidazioni scritte, telefoniche e verbali, concretizzatesi nell’aprile 1986 con l’incendio dell’automobile dell’assessore alle cave, parcheggiata davanti al municipio durante una riunione di giunta. Nessuno di questi signori sentì allora il bisogno di prendere le distanze da quei fatti e qualcuno si trovava in Consiglio comunale nella lista che si opponeva all’amministrazione Valentini. Amministrazione che, avendo sottoposto a miglior controllo le rese di cava, aveva portato ad un considerevole aumento dei canoni di concessione e lasciato un avanzo di cassa pari a 600 milioni di vecchie lire.

    Poi il Comune è tornato sotto il controllo delle fazioni dei concessionari di cava, unitesi proprio all’insegna della parola d’ordine che voleva “il ritorno alla normalità” e le casse comunali si sono andate via via impoverendo, riducendo Lona-Lases alla stregua dei comuni più poveri del Trentino.

    Il municipio

    Ebbene, l’ossatura della lista che si è imposta domenica 25 nella sfida con il quorum, è costituita proprio dalle persone che nel 1995 hanno provveduto alla normalizzazione dell’unico comune della zona del porfido che aveva osato alzare la testa. Non solo: ne fanno parte ex assessori e consiglieri di maggioranza che rappresentano pressoché tutte le amministrazioni succedutesi fino al 2020.

    Se questo è voltar pagina…

    Singolare però è la sequenza di fatti, sicuramente del tutto casuali, che ha prodotto questo cambiamento volto alla conservazione, o forse conservazione volta al cambiamento?

    Innanzitutto il reiterato rifiuto da parte dei vari prefetti succedutisi in questi anni che, a partire dalle anomale dimissioni, nel maggio 2021, dell’amministrazione in carica (senza alcuna opposizione trattandosi di lista unica), mai hanno preso in considerazione nemmeno per ipotesi di richiedere al Governo l’invio di una commissione d’accesso. Eppure era noto dall’indagine “Perfido”, magistralmente condotta dai Carabinieri del ROS, che in municipio si trattavano affari non tutti leciti, che nell’opacità avveniva il voto di scambio e l’espressione libera del voto era spesso condizionata.

    In secondo luogo il fatto che vi sia un “Avviso conclusione indagini”, datato 29 marzo 2023 (abbandonato ai topi in qualche cassetto del Tribunale ?) riguardante due ex-sindaci (uno dei quali a Lona-Lases), tre carabinieri (uno di Cardeto-RC e tre che hanno prestato servizio presso la stazione di Albiano), un ex senatore, un generale e un faccendiere; avviso al quale non è fino ad ora seguita alcuna richiesta di rinvio a giudizio.

    Casuale è anche senz’altro quanto accaduto in questi giorni, dal rinvio di un mese (dal 20 febbraio al 20 marzo) della prima udienza del processo a Innocenzio Macheda, ritenuto il dominus del locale di ‘ndrangheta insediato a Lona-Lases e Albiano, almeno secondo la pubblica accusa; così come la diffusione della notizia relativa all’archiviazione dell’esposto relativo all’area artigianale Dossi-Grotta, passata alla stampa due giorni prima delle elezioni (con l’evidente scopo di screditare il C.L.P), dopo mesi dall’udienza avvenuta il 12 dicembre 2023.

    Archiviazione sulla quale ci sarebbe molto da ridire in quanto, nonostante i rilievi puntuali e precisi fatti nell’opposizione all’archiviazione da parte del C.L.P. (con il prezioso l’ausilio dell’avv. Bonifacio Giudiceandrea), non si è ritenuto di effettuare alcun approfondimento d’indagine. Eppure sarebbe emerso che quanto certificato dall’arch. Polla e dalla dott.ssa Morandini a maggio 2021, ossia l’assenza di acqua potabile, di servizi igienici e sistema di raccolta dei reflui industriali, corrispondeva a verità. A differenza di quanto scritto negli atti d’indagine, condotta dai CC di Albiano, che pur confermando la presenza, solo in un cantiere, di due bagni chimici, attestano trattarsi di bagni, le baracche o i container posti all’interno dei piazzali, nonostante le loro porte di accesso fossero “chiuse a chiave e quindi inaccessibili dall’esterno”. Essi scrivono di aver avuto “l’impressione a prima vista di un bagno di tipologia ‘chimico da cantiere’” in quanto tali baracche erano dotate di “una finestra di medie dimensioni” e inoltre “nella parte sottostante al box, per quanto è stato possibile vedere, si sono notati alcuni tubi che con probabilità facevano da collegamento con la vasca di raccolta dei liquidi reflui”. Impressioni, probabilità, non un documento attestante l’eventuale svuotamento di tali probabili vasche richiesto alle ditte!

    Antonio Giacomelli, nuovo sindaco di Lona Lases.

    Ma c’è di più: sia il PM nel richiedere l’archiviazione, che il Giudice nel concederla, fanno riferimento ad una attestazione dello UOPSAL (Unità operativa prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro) che, a seguito di ben 6 ispezioni in altrettante ditte operanti su quell’area, non avrebbe riscontrato alcuna carenza in merito al servizio di acqua potabile; ebbene, tra le 6 ditte indicate solo 2 si trovano in realtà in quell’area (una delle quali pare nemmeno operativa alla data dell’ispezione), mentre delle altre 4, due si trovano addirittura ad Albiano, una a Trento e solo un’altra a Lona-Lases, ma in località Pianacci. Eppure bastava leggere la tabella allegata alla relazione per rendersene conto!

    Il paese dei citrulli

    L’impressione che si ricava da tutto ciò è di trovarsi dentro la fiaba di Pinocchio quando, finito il burattino dietro le sbarre per aver denunciato di essere stato derubato, capisce che per essere rimesso in libertà deve smettere di protestarsi innocente, o peggio vittima, per dichiararsi invece reo confesso. Ma qui non siamo dentro una storia di Collodi; se così fosse, vedremmo aggirarsi molti nasi smisuratamente lunghi!

    Qui abbiamo visto in azione il Potere, quello con P maiuscola appunto, quello formato da interessi economici forti e ben radicati (che non hanno esitato a dar vita a cointeressenze con soggetti legati ad organizzazioni mafiose), da una politica compiacente che da essi trae legittimazione, da istituzioni preoccupate più a non mettere a repentaglio gli equilibri di potere esistenti che non a presidiare la legalità fondata sui valori costituzionali. Non hanno certo brillato nemmeno le organizzazioni sindacali, la cui ragion d’essere è purtroppo molto lontana dalla tutela dei diritti dei lavoratori rappresentati e, infine, le associazioni che si definiscono “antimafia sociale”, rimaste incredibilmente mute in questi ultimi mesi.

    Ma nonostante ciò, nessuno può cancellare ciò che è avvenuto in questi decenni: la predazione di una risorsa della collettività da parte di pochi, la devastazione ambientale e il feroce sfruttamento dei lavoratori (testimoniato quest’ultimo da due sentenze passate in giudicato). Vale a dire la sistematica violazione dell’articolo 41 della Costituzione che, pur garantendo la libera iniziativa economica privata, stabilisce che essa “non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Qui sono condensate le ragioni dell’iniziativa e dell’esistenza del Coordinamento Lavoro Porfido che, non essendo stato il risultato elettorale un plebiscito in favore della lista guidata da un perfetto sconosciuto come l’avv. Giacomelli (ma composta dai soliti noti), rende legittimo e possibile il proseguimento della nostra azione.

  2. Queste Donne
    Piesse: Queste Donne
    A cura dello Studio d’Arte Andromeda
    Veronica Rigotti, Guardare
    Melany Merendino, Legami
    Marta Montesi, Il mostro della Guerra
    Assunta Toti Buratti, Il dubbio
  3. Democratura, la nuova normalità
    Servizi
    Come svuotare la democrazia dall'interno senza che (quasi) nessuno se ne accorga.
    di Laura Mezzanotte

    Da anni sentiamo dire che l’ungherese Orbán è un autocrate (dire dittatore, oggi come oggi, par quasi sconveniente). Ha silenziato stampa e opposizione, ha messo il guinzaglio alla magistratura, ha emanato un’infinita serie di leggi che imbavagliano il parlamento, obbligato i suoi cittadini al lavoro forzato e potremmo continuare. Ciononostante non ci agitiamo più di tanto quando lo vediamo incedere baldanzoso nei palazzi di Bruxelles e non facciamo una piega pensando che dal primo luglio prossimo avrà la presidenza dell’Unione Europea.

    Né ci arrabbiamo quando vediamo l’Europa pietire il suo consenso e blandirlo (col nostro denaro) invece che dichiararlo tout court “esiliato” dal consesso europeo.

    Solo quando, poco tempo fa, abbiamo visto le immagini di Ilaria Salis portata in ceppi in tribunale abbiamo fatto un salto sulla sedia: “Allora è vero che Orbán è un cattivone!” ci siamo detti.

    Perché? Perché solo adesso, dopo anni che Orbán spadroneggia e solo quando abbiamo visto le mani e i piedi inchiavardati della Salis?

    “Abbiamo visto” è la parola chiave di questo enigma, perché il nostro cervello “legge” la realtà attraverso un sistema di immagini archiviate nel tempo, di cose che abbiamo già visto.

    Allora facciamoci tutti una domanda. Se diciamo “colpo di stato” e “dittatura” quali immagini arrivano istantaneamente nella nostra testa?

    Non so voi, ma a me si accendono carri armati nelle strade e militari col fucile puntato che radunano persone ammanettate negli stadi. È l’esperienza della mia generazione, quella che ha visto il golpe in Cile nel 1973 e pianto su “Z, l’orgia del potere” di Costa-Gavras. I fucili spianati, i carri armati e le catene, le milizie assassine - in una parola la violenza senza controllo - sono probabilmente ancora oggi lo schema iconico necessario perché il nostro cervello del 2024 senta con chiarezza che si trova davanti ad una dittatura e percepisca le sue ramificazioni e conseguenze. Ed è proprio a livello di questa percezione che si trova il trucco mimetico usato da svariati autocrati negli ultimi vent’anni, per procedere indisturbati.

    “Usa la democrazia per fotterla”

    Ce lo spiega molto chiaramente Kim Lane Scheppele, sociologa di Princeton, in uno studio pubblicato peraltro già nel 2018 e che oggi risulta sempre più confermato, purtroppo, dalla realtà.

    La Scheppele ricostruisce il modus operandi di una serie di autocrati moderni che sembrano agire in base ad un manuale del piccolo dittatore.

    Orbán in prima fila, ma poi anche Erdogan, Putin, il defunto Chavez (e verosimilmente anche il suo allievo Maduro), l’ecuadoriano Correa (anche a sinistra il potere dà alla testa), i polacchi del Pis. Noi, in base al ragionamento proposto dalla studiosa, ci permettiamo, a distanza di cinque anni dalla stesura dello studio, di aggiornare la lista con un probabile Trump e con un quasi certo Netanyahu. Per l’argentino Milei le notizie che arrivano da Buenos Aires parlano da sole.

    La prima regola del manuale è: “Usa la democrazia per fotterla” (chiediamo venia, ma è il vocabolo più adatto).

    Il presupposto dell’ascesa al potere è sempre quello di uno stato di crisi: economica certamente, ma non solo. Soprattutto crisi di fiducia nelle istituzioni pubbliche, e quindi di legittimità sostanziale, presso i suoi cittadini.

    Il passo successivo è sollevare le folle contro l’establishment e dichiarare di essere l’uomo (o la donna) del popolo. Cosa che fa stravincere le elezioni all’autocrate in pectore. Tutto perfettamente democratico. “Lo ha voluto il popolo” è il refrain di questo tipo di autocrati. E fin qui è banale populismo che conosciamo fin dall’antichità.

    Ma è quel che succede dopo l’ascesa, democratica, al potere che cambiano le carte in tavola. Perché da quel momento parte un’onda “trasformativa”.

    Orbàn
    Erdogan
    Milei

    Il primo sospetto di legalismo autocratico - così lo chiama Scheppele, n.d.r. - è quando un leader democraticamente eletto sferra un attacco concertato e prolungato alle istituzioni che hanno il compito di controllare le sue azioni o alle regole che lo obbligano a rendere conto del suo operato, anche quando lo fa in nome del mandato democratico. Allentare i vincoli costituzionali sul potere esecutivo attraverso una riforma giuridica è il primo segno”.

    Orbán, in questo senso, ha avuto vita facile: la costituzione ungherese, come quasi tutte, richiede i due terzi del voto parlamentare per essere modificata. Una maggioranza di solito impossibile per un solo partito, ma lui aveva ottenuto il 68 per cento dei seggi parlamentari. E così ha attaccato l’indipendenza della magistratura, dei media, della pubblica accusa, delle autorità fiscali (perché Bruxelles continua a dare soldi a Orbán che non fa altro che distribuirli ai suoi amici?), della commissione elettorale.

    Ma per non apparire dittatoriale e sollevare una reazione immunitaria generale, anche Orbán doveva mascherare le sue intenzioni. Lui, ma pure Erdogan, ad esempio, hanno fatto così: hanno gonfiato a dismisura le competenze delle loro rispettive corti costituzionali, cosa che ha richiesto la nomina di un numero considerevole di nuovi giudici. Tutti ovviamente fedeli al partito del presidente. Ed ecco fatto come si controlla la corte. I polacchi del Pis invece hanno modificato i criteri di nomina dei giudici costituzionali, come prima cosa. Una variante sul tema.

    Ma per avere poi il controllo di tutta la magistratura, Orbán ha abbassato l’età della pensione dei magistrati, mandando a casa molti giudici autorevoli e sostituendoli con persone fedeli al suo partito. I polacchi invece hanno dato direttamente al ministro della giustizia il potere di licenziare i presidenti dei tribunali.

    Putin ha cominciato da un punto diverso del sistema. Una volta eletto democraticamente, aveva riorganizzato la struttura amministrativa del paese eliminando l’elettività dei governatori locali, sostituiti con persone nominate direttamente dal presidente. In un paese sconfinato come la Russia, questo significa avere il controllo ferreo di quel che succede.

    In Sudamerica, invece, sia Chavez che Correa hanno convocato assemblee costituenti con cui riscrivere la costituzione e attribuire premi di maggioranza esorbitanti. Un campanello di allarme per noi: mentre ci parlano di premierato dovremmo ricordarci che c’è anche questa idea che continua a rimbalzare. Più potere al capo del governo coniugato ad un premio di maggioranza un po’ obeso non sono belli da vedere, eh!.

    Anche se Scheppele ha scritto già cinque anni fa, siamo certi che anche l’israeliano Netanyahu sarebbe nella sua lista come apprendista, visto il suo progetto di sottoporre la Corte suprema israeliana al controllo del potere politico, dando al governo un grande peso nella selezione dei giudici e togliendo alla corte il controllo costituzionale delle leggi. Gli israeliani, a dire il vero, se n’erano accorti e, prima del 7 ottobre, stavano manifestando da mesi contro questa riforma.

    Quanto a Trump, nel 2018 quando la ricerca è stata fatta, non aveva ancora dato il meglio di sé.

    A questo punto gli esempi sono troppi per darvene conto completamente. Ma lo schema sottostante è quello di trasformare il costituzionalismo in maggioritarismo. Ovvero: un sistema costituzionale sano è capace di reggere tensioni e anche di trovare le sintesi corrette delle diverse spinte politiche perché funzionano i pesi e contrappesi del meccanismo. Cosa ben diversa dalla pura volontà della maggioranza che non fa sintesi, ma impone semplicemente il volere dei più. Spesso personificato dal volere del capo che non dimentica mai di ricordare a chi lo critica che lui ha vinto e questo deve bastare. E anche questo dovrebbe far scattare un allarme per noi.

    Perché non scatta l'allarme?

    Nella seconda parte dello studio, la Scheppele individua in dettaglio il meccanismo per cui a fronte di quel che abbiamo finora detto, non c’è stata quasi mai una reazione travolgente dell’opinione pubblica interna e internazionale.

    Il primo trucco dei nuovi autocrati - scrive - consiste nel fare affidamento sugli stereotipi delle dittature che stanno nella testa delle persone”. Riferendosi a Hitler e Stalin (ma lo stesso vale per il Cile e altri esempi) così riassume: “In entrambi gli scenari la concentrazione del potere è brutale, completa e del tutto evidente. Entrambe le narrazioni presentano leader che giustificano ciò che stanno facendo in nome di una forte ideologia autoritaria. L’avvento dell’autoritarismo è accompagnato dalla presa violenta del potere e dalla distruzione delle precedenti istituzioni politiche. Gli agenti della distruzione sono paramilitari irregolari, polizia segreta e organi di partito che vengono dall’esterno del sistema per schiacciarlo”.

    Il potere, continua la studiosa, è monopolizzato è c’è violazione dei diritti umani su scala di massa.

    Quando succedono queste cose, afferma, “sai che sei nei guai” e questi sono i segnali che il pubblico riconoscerà come pericolo imminente.

    Ma, prosegue Scheppele, le persone si aspettano che accadano proprio questo tipo di fatti e, se non avvengono, si convincono che il pericolo non sia poi così grande. Nella loro testa non si accende l’allarme destato dai carri armati e dalle milizie scatenate.

    Anche perché i moderni autocrati si premurano di “non ripetere quegli scenari ben noti”. Sono ideologicamente flessibili e “lasciano in gioco quel tanto di dissenso da sembrare tolleranti... In questi regimi si troverà sempre una manciata di piccoli giornali di opposizione, alcuni partiti politici deboli, alcune Ong favorevoli al governo”.

    Non c’è stato di emergenza, né violazione dei diritti umani in massa, non ci sono carri armati nelle strade. Chi si oppone al regime viene cacciato dal paese invece che incarcerato e si usa contro di lui l’arma economica: licenziamento dal lavoro, perdita di benefici sociali, sfratti di casa per piccoli motivi pretestuosi; le associazioni vengono private di ogni finanziamento, la stampa di opposizione è strangolata economicamente facendole mancare in toto la pubblicità e via dicendo.

    Qui dobbiamo fare un inciso.

    Chi ha studiato la storia, sa che queste cose sono accadute in ogni regime visto finora. Un esempio per tutti: i docenti universitari che non erano iscritti al partito fascista venivano cacciati dalle università. Per questo Scheppele parla di una “sottonarrazione” delle dittature che nel tempo è stata poco valutata, ma che è effettivamente sempre esistita. Oggi è quello il livello di repressione che gli autocrati utilizzano in tutte le sue, notevolissime, potenzialità senza grandi contraccolpi. Fino al momento in cui vediamo Ilaria Salis in catene. Probabilmente quell’immagine ha fatto veri danni al regime di Orbán: non a caso adesso l’Unione Europea si sta domandando se sia davvero opportuno lasciargli in mano la presidenza dell’Unione Europea tra qualche mese.

    Alla fine però dobbiamo anche domandarci come stiamo noi in Italia. Che, siamo seri, non è l’Ungheria. Ma quando ci parlano del premierato noi, in sottofondo, un campanello d’allarme lo sentiamo.

  4. Come elettrificare la Valsugana
    Lettere e interventi
    di Italo Piffer del Comitato Mobilità Sostenibile Trentino

    Leggiamo dalla stampache RFI avrebbe trasmesso l’Ok della conferenza dei servizi nazionale al progetto di elettrificazione della tratta Trento-Borgo Valsugana, quale primo lotto di un successivo prolungamento a tratte successive. In prima battuta esprimiamo il nostro plauso per un’opera ferroviaria che ha già tardato fin troppo ad emergere, ahimè, nel panorama nazionale “tutto strada” cui siamo avvezzi.

    La notizia prosegue però con le immancabili dolenti note riassumibili nel fatto che RFI ha comunicato che la realizzazione dell’opera comporterà 15 mesi di sospensione totale della circolazione sulla tratta. La Provincia, soggetto competente per la fornitura dei servizi di mobilità pubblica, non avrebbe esternato obiezioni.

    Il sacrificio in termini di soppressione di servizio di trasporto pubblico, quantificato appunto in 15 mesi di sospensione, è una contraddizione in termini, nel senso che un’opera di infrastrutturazione finalizzata alla produzione di un servizio richiede come condizione la soppressione dello stesso per un periodo eccessivo e non necessario.

    È evidente che RFI ha recitato il consueto ruolo di attore unico in assenza di ogni dialettica contrattuale con altri soggetti istituzionali. RFI ha evidentemente adottato la soluzione tipica di un'opera interamente nuova. Praticamente lavorando in un deserto all’interno dei cancelli del cantiere fino alla consegna dell’opera con rituale taglio del nastro. Non è il caso di una linea esistente e pienamente “produttiva di servizio”, anche se non proprio gradita e coccolata dall’Amministrazione Provinciale.

    Non è un mistero che la linea della Valsugana non è mai stata considerata fra i gioielli di famiglia dalla PAT e ciò è dimostrato dalla mancata reazione al lungo periodo di sospensione del servizio ferroviario. L’elettrificazione di una linea ferroviaria è un’opera di manutenzione straordinaria, un intervento che non comporta obbligatoriamente l’interruzione totale dell’esercizio, che opera per lo più a lato del sedime dei binari (palificazione), quando non in aree del tutto esterne (sottostazioni e alimentazione primaria).

    Circa vent’anni fa, è stata rifatta interamente l’elettrificazione della Verona–Brennero e poco dopo della Bolzano-Merano senza un giorno di interruzione del servizio. L’elettrificazione in corso della Merano-Malles non prevede interruzioni, salvo per interventi contenuti e puntuali. Le problematicità geomorfologiche in alcune tratte della Valsugana potranno richiedere qualche modesto sacrificio supplementare, ma non l’interruzione totale.

    Alle convenienze economico-operative di RFI deve essere opposto il contraltare della massima salvaguardia del servizio pubblico, che resta il fine ultimo e prevalente di ogni infrastruttura di “servizio pubblico”.

    L’utenza già provata da disservizi ricorrenti, da una qualità del servizio che è ottimistico definire scadente, come reagirà a una fermata di quindici mesi, che non resteranno ovviamente solo quindici? La risposta è superflua: si andrà su strada e molto di più con auto propria. È forse questo che si vuole?

    In conclusione sosteniamo che l’elettrificazione della Valsugana, una linea che conosce sette-otto ore al giorno di sospensione notturna del servizio, deve avvenire con interventi oculatamente programmati in tali periodi di sospensione del servizio, con interruzioni puntuali ove inevitabili. Diversamente sorge il sospetto che si siano scelte da parte di RFI modalità operative semplificate per pure ragioni di costi e altre facilitazioni e che la scelta sia un gradito regalo al gestore del servizio di mobilità pubblica (la Provincia) per ragioni misteriose.

    Un’ultima doverosa considerazione circa l’impatto della palificazione lungo il Lago di Caldonazzo. Una palificazione a traliccio, come si usa, non comporta alcun evidente impatto qualora si abbia l’accortezza di scegliere una colorazione mimetica adatta, disponibile e relativamente poco costosa. Basta semplicemente dare un’occhiata al vicino Sudtirolo, ai cui confini la colorazione dei pali passa dal grigio zinco al verde (che siano da sempre più attenti alla tutela del paesaggio lassù?), per poi ripassare al grigio cemento al confine del Brennero, in Tirolo, dove evidentemente la molla dei costi, per quanto inconsistente, torna a prevalere. Oltre l’Austria, in Baviera, le palificazioni, anche della rete elettrica civile, sono prevalentemente verdi.

    Il Comitato Mobilità Sostenibile Trentino ritiene che il vero potenziamento della linea ferroviaria della Valsugana (raddoppio dei binari, completa elettrificazione, idoneità al trasporto delle merci tra il Veneto e il Corridoio Scandinavo Mediterraneo etc.) da progettare e realizzare nel medio/lungo periodo possa essere la soluzione definitiva agli endemici problemi dell’attuale linea della Valsugana.

  5. Gaza, l’indignazione selettiva
    Rubriche: Risiko
    Ovvero, la Bancarotta Morale dell’Occidente.
    di Carlo Saccone

    La notizia che gli Stati Uniti hanno pochi giorni fa opposto per la terza volta il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, presentata questa volta dai paesi arabi, che chiedeva la cessazione immediata delle ostilità a Gaza, ha definitivamente scoperto il gioco ambiguo della amministrazione Biden sulla spinosa questione del genocidio dei palestinesi. Da settimane il segretario di stato Blinken supplicava Israele di “non esagerare”, di moderare l’azione militare su Gaza, ma senza accompagnare queste esortazioni con argomenti convincenti che di solito, in situazioni analoghe, possono andare dalle sanzioni al richiamo degli ambasciatori. In realtà gli Stati Uniti potrebbero fare molto di più: bloccare immediatamente il flusso di armi e munizioni che arrivano in Israele senza interruzione dal 7 ottobre, o magari bloccare l’attuale legge in discussione al parlamento americano che, accanto agli aiuti all’Ucraina, prevede anche decine di miliardi di dollari aggiuntivi di aiuti militari a Israele.

    Niente di tutto ciò viene fatto dall’amministrazione Biden. In compenso si sprecano le esortazioni, accompagnate da lacrime di coccodrillo per i “poveri civili palestinesi”, all’addiaccio affamati ammalati amputati ammazzati. Ultimamente Blinken si è spinto fino a dichiarare arditamente “non conforme al diritto internazionale” la continua espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Insomma, per non dire che sono illegali, secondo il diritto internazionale e secondo diverse risoluzioni dell’ONU, si ricorre per l’ennesima volta a tortuose perifrasi. Nel frattempo il governo israeliano, sensibile molto di più alla pressione interna che non a quella internazionale, ha fatto una proposta per il dopoguerra che suona a dir poco provocatoria. Tale proposta contempla un governo civile palestinese a Gaza (senza Hamas), ma la sicurezza e i confini resterebbero nelle mani dell’IDF, ovvero l’esercito israeliano. Si tratta né più né meno della situazione amministrativa che vive da decenni la Cisgiordania, definita da qualcuno una dittatura militare a malapena coperta dall’impotente governo civile di Mahmud Abbas (Abu Mazen): situazione che, negli anni, ha portato al moltiplicarsi dei coloni israeliani, protetti appunto dall’IDF, in barba agli accordi di Oslo che prevedevano di creare proprio in Cisgiordania il futuro Stato Palestinese sovrano. Nessuna meraviglia che agli occhi dei palestinesi, la proposta israeliana per il dopoguerra a Gaza suoni come una presa in giro.

    Mentre scriviamo mancano pochi giorni al secondo appuntamento al Tribunale Internazionale dell’Aja dove gli avvocati di Israele dovranno presentarsi portando le prove di avere tentato nell’ultimo mese tutte le vie per risparmiare i civili di Gaza e garantire loro un afflusso adeguato di aiuti alimentari e sanitari.

    Che dire? Un compito arduo per gli avvocati d’Israele: in quest’ultimo mese i morti civili palestinesi sono saliti da 20.000 a 30.000, la situazione alimentare si riassume in fame e denutrizione, ancor più grave nel nord di Gaza dove l’agenzia UNRWA dell’ONU è stata messa nella impossibilità di operare dall’azione combinata dei militari dell’ IDF e da una martellante campagna di delegittimazione dell’agenzia, accusata dagli israeliani di avere fiancheggiato i militanti di Hamas sin dal 7 ottobre.

    Per quanto riguarda la parte sanitaria, a Gaza si dice apertamente che gli ospedali, privi di medicine energia elettrica e a corto di personale e di ambulanze, si sono trasformati da luoghi di cura in luoghi di morte. I medici devono spesso operare senza anestesia e regolarmente rimandano a casa i malati bisognosi di cure e medicine che non possono più dare; intanto anche le epidemie si diffondono.

    “Vi saremo grati se ci manderete dei sudari”

    Cosa diranno gli avvocati al Tribunale dell’Aja a discolpa di Israele? Che Israele in quest’ultimo mese ha solo esercitato il suo indiscutibile sacrosanto diritto alla difesa? La distruzione pianificata di Gaza come ambiente vivibile è sotto gli occhi di tutti; il piano di indurre i palestinesi a lasciare “volontariamente” Gaza e trasferirsi da qualche parte nell’ampio e accogliente deserto del Sinai è più che trasparente.

    Mi ha colpito la dichiarazione che ho udito durante un tg nazionale alcune settimane fa di un povero padre in mezzo alle macerie e ai morti della sua casa a Gaza, il quale, a un giornalista che gli chiedeva se volesse fare un appello, così rispondeva testualmente: “Un appello? Quale appello? Qui c’è bisogno ormai solo di sudari. Ecco, cittadini del mondo, vi saremo grati se ci manderete sudari per avvolgere i nostri morti!”. Dichiarazione terribile, che inchioda i “cittadini dl mondo” alle loro responsabilità. Quel padre, privato di casa e famiglia da una bomba, ci dice tra le righe: da voi non ci aspettiamo più niente, voi che nel migliore dei casi avete colpevolmente taciuto sulla politica sistematica di sopraffazione del popolo palestinese che dura da 70 anni… Nel peggiore, avete fatto affari con i nostri carnefici, rifornendoli di aerei e di bombe. Cos’altro ci possiamo aspettare da voi che altro non volete se non che seppelliamo i nostri morti e togliamo il disturbo? Anche la Chiesa di Roma, rompendo un lungo tentennamento, ha recentemente denunciato attraverso le parole del cardinale Parolin la orribile “carneficina” che si sta svolgendo a Gaza, la mattanza in quattro mesi di 30.000 uomini, donne, vecchi e bambini, al cui confronto i 10.800 morti civili ucraini in due anni di guerra sembrano poca cosa, anche se i morti sono sempre innocenti.

    E qui vorrei introdurre il tema della Bancarotta Morale dell’Occidente. Tutti noi abbiamo udito i nostri giornali e tg martellarci giornalmente sulle crudeltà dell’armata di Putin che a ogni bombardamento lasciava i suoi “danni collaterali”, quantificabili, in 730 giorni (due anni dal 24 febbraio 2022) in una media di circa 15 morti civili al giorno. Confrontiamo questi numeri, per avere un’idea della catastrofe di Gaza, con la media giornaliera dei morti palestinesi a Gaza dopo circa 150 giorni (5 mesi di guerra): il risultato è spaventoso, si tratta di una media di 200 morti al giorno, che fanno di questa guerra, condotta dall’esercito israeliano con i mezzi di distruzione più sofisticati, la più letale in assoluto, almeno dalla guerra del Vietnam. Qualcuno si è chiesto: ma a Gaza i civili morti rappresentano davvero danni collaterali? A questo si aggiunge la distruzione sistematica dell’ambiente urbano con oltre il 50% delle case distrutte o rese inabitabili; la distruzione completa del sistema viario, di scuole, delle centrali elettriche, del rifornimento idrico, persino di gran parte dei forni del pane.

    Cosa diranno gli avvocati? Risponderanno: ma Israele ha diritto a difendersi. Davvero? Stimati specialisti di diritto internazionale fanno osservare che, come potenza occupante, Israele non può accampare un astratto diritto alla difesa, semmai questo compete agli abitanti dei territori occupati; se l’argomento giuridico non convince, pensiamo alla storia partigiana: in Italia come in Vietnam, o persino nella Palestina sotto protettorato inglese, dove gli ebrei del gruppo terroristico Irgum facevano saltare in aria gli alberghi e le jeep degli inglesi.

    La rivolta degli schiavi

    Non sono un giurista, e non spetta a me dire chi ha ragione in punta di diritto. Ma mi ha colpito leggere da qualche parte una interessante osservazione di carattere storico-comparativo. La rivolta e il massacro di circa 1100 israeliani il 7 ottobre è stata paragonata alle antiche rivolte di schiavi. I palestinesi, a torto o a ragione, spesso usano questa parola per descrivere la propria situazione: siamo in Cisgiordania o a Gaza sotto occupazione militare, con i nostri diritti calpestati da anni, le nostre case espropriate, i nostri oliveti sradicati, l’acqua delle nostre terre requisita dalle autorità israeliane che ce ne danno a loro discrezione e sempre meno del necessario ai nostri campi, con limitazioni ai movimenti dentro e fuori le nostre “riserve indiane”, con arresti arbitrari e detenzioni amministrative (ossia senza processo).

    A tutto questo si riferiva Antonio Gutierrez quando all’indomani del 7 ottobre, osservava con parole di semplice buon senso: “Il 7 ottobre non nasce dal nulla, ma ha dietro di sé 70 anni di occupazione soffocante”. Una rivolta di schiavi appunto. Come ce ne furono, e numerose, nella storia dell’Impero Romano, ma anche in quella del Califfato Arabo. Rivolte di gente disperata e oppressa che, per qualche giorno o al massimo qualche mese, usciva dalle proprie “riserve” compiendo vendette senza pietà sugli oppressori romani o arabi, per poi divenire inesorabilmente oggetto di rappresaglie dieci volte più spietate che conducevano spesso allo sterminio totale dei ribelli.

    Ecco, a Gaza ci è stata riproposta questa antica terribile storia, quella degli schiavi che massacrano i padroni con le loro donne e i loro bambini, per finire poi a loro volta massacrati senza pietà. Sono tutti assassini? Certo, schiavi e padroni, senza alcun dubbio, ma la domanda cruciale è: chi ha più colpa? Chi è all’origine di questa catastrofe? Non ce lo diranno i raffinati avvocati di Israele. Non ce lo diranno i sepolcri imbiancati della diplomazia internazionale, da Blinken a Borrell. Non ce lo diranno i tanti giornalisti che sono ormai divenuti degli esperti di indignazione selettiva, il marchio indelebile della Bancarotta Morale del nostro Occidente.

    A questo proposito, ho letto con grande profitto una interessante intervista intitolata “I leader disgregatori minacciano la pace”, proveniente inopinatamente dalle pagine domenicali de Il Sole 24 Ore (18 febbraio, p. 5) a firma di Andrew Gilmour, della Fondazione Berghof. Quali siano questi “leader disgregatori”, che nel mondo da anni seminano il caos a piene mani, è questione sulla quale ognuno si sarà fatto un’idea, ma la parte più interessante dell’articolo è un’altra e merita una citazione, perché riguarda da vicino il mondo dell’informazione e i suoi metodi: “Mi preoccupa molto la selettività dell’indignazione. Sono sconvolto dai crimini di guerra in Ucraina perpetrati dalle forze russe... Sono altrettanto sconvolto da quelle che sembrano prove evidenti di gravi crimini di guerra a Gaza... Ma le persone che si oppongono ai crimini di guerra in un luogo spesso chiudono gli occhi su azioni simili altrove”.

    E ancora: “La maggior parte del mondo fa fatica a comprendere il cieco sostegno occidentale - militare politico morale - alla distruzione di Gaza, all’uccisione di migliaia di civili”. E, dopo avere lamentato che la maggior parte dei paesi europei ha ignorato la recente ordinanza dell’Aja contro Israele per la prevenzione del genocidio “mostrando quanto sia sottile l’impegno dell’Europa nei confronti dello stato di diritto”, Gilmour trae la logica conclusione: “Non si può avere un ordine mondiale pacifico se le persone che sostengono di essere i principali sostenitori di un ordine [mondiale] basato sulle regole” si comportano in modo così selettivo” proprio con riguardo a regole che si pretenderebbero universali.

    A proposito di genocidio

    Gilmour, nell’intervista, faceva riferimento alla ordinanza con cui il Tribunale dell’Aja aveva accolto a fine gennaio il ricorso del Sudafrica che accusava Israele di “genocidio”, decidendo di non archiviare la causa, ma di dare in extremis un’ultima possibilità ad Israele: quella di presentarsi entro un mese a dimostrare, come s’è detto, di avere fatto nel frattempo ogni sforzo per prevenire il “genocidio”.

    E proprio su quest’ultima terribile parola pronunciata dall’accusa a l’Aja, e che tanto sconcerto ha suscitato tra gente colta e meno colta, vorremmo fare qualche osservazione conclusiva.

    Quando si usa questa parola il nostro pensiero va subito a momenti tragici della storia recente come la Shoah o il Medz Yeghern (la strage degli Armeni di inizio '900). Ma in effetti il concetto giuridico di “genocidio” su cui si basa oggi il diritto internazionale è un altro, e direi contro-intuitivo rispetto all’idea che ne abbiamo noi profani. Quando nel 1948 fu istituito il Tribunale Internazionale si adottò una definizione di genocidio che non implica necessariamente lo sterminio totale di un popolo, ma si applica anche a fattispecie diverse, purché in sostanza esistano due condizioni:

    1). la constatazione di atti come massacri anche limitati, deportazioni, espropri, impedimento di rifornimenti alimentari (elemento oggettivo) che si inquadrano – ed ecco il punto cruciale – in

    2) una cosciente volontà di distruggere o rendere impossibili le condizioni di vita per una entità nazionale (elemento soggettivo). E ben si comprende la ratio profonda di questa definizione: nel 1948, dopo la tragedia della Shoah, i giuristi dell’ONU compresero che non si può considerare il crimine di “genocidio” solo a posteriori, a cose fatte, come purtroppo accadde agli ebrei d’Europa negli anni ‘40, ma che occorreva prevenire e fermare molto prima la mano di governi e gruppi criminali con chiari programmi genocidi o di cancellazione di altre entità nazionali (le dichiarazioni razziste di certi personaggi come i ministri israeliani Ben Gvir e Smotrich non a caso sono parte integrante delle prove presentate all’Aja a carico di Israele).

    Il rifiuto del Tribunale dell’Aja di archiviare l’accusa di genocidio, che ha fatto infuriare il governo di Tel Aviv, significa (per il momento) solo una cosa: l’accusa del Sudafrica non era infondata e la conseguenza più spiacevole è che per anni Israele sarà alla sbarra di fronte al mondo intero con accuse infamanti, che gli rovesciano addosso un crimine orrendo, sia pure in scala molto minore rispetto a quello senza pari che subì ormai quasi 80 anni fa. In sintesi: neppure gli eredi della Shoah possono permettersi oggi di agire da emuli del nazismo. Questa la grande lezione dei giudici del Tribunale Internazionale.

    La capiranno gli attuali leader israeliani? Non credo. Il popolo d’Israele prima o poi lo capirà, perché anche dopo la fine di questa guerra si dovrà di nuovo confrontare con la verità, profonda e universale, di una frase più volte ripetuta da papa Giovanni Paolo II: “Non può esservi pace senza giustizia”.

  6. Orsi: la mia esperienza
    Lettere e interventi
    di Paolo Mayr

    Alla triste vicenda del povero orso M90, desidero aggiungere alcune considerazioni ed esperienze. Più di vent’anni fa, dopo la reintroduzione dei primi orsi, partecipai ad un convegno a Prato allo Stelvio organizzato dal WWF e da altre associazioni, tra le altre provenienti dalla Svizzera e dall’Alto Adige. Si parlò principalmente della necessità di porre in opera, per contenere i rifiuti organici, di speciali cassonetti anti-orso, di strategie di monitoraggio, di controllo della specie e di comunicazione con le popolazioni interessate.

    Di tutto ciò, purtroppo, dopo alcuni decenni si è fatto ben poco, pur sapendo che l’orso è intelligente e opportunista, sta dove trova cibo facilmente, ed essendo onnivoro si trova benone dove trova frutta, verdure e rifiuti organici, quindi proprio come nelle nostre vallate agricole e densamente popolate.

    Sulle abitudini alimentari dell’orso ho vissuto poi un intenso episodio personale: ancora circa vent’anni fa con un amico di San Lorenzo in Banale abbiamo atteso il ritorno dell’orso dalle sue scorribande notturne. Prima dell’alba egli ci è passato a pochi metri: un animale bellissimo, lucido, con un bel muso lungo e grandi occhi. In un attimo, senza notarci, è sparito nel bosco.

    Ritornata la luce del giorno, ci siamo mossi sulle tracce del plantigrado nelle campagne delle Moline e della Madonna di Deggia, rilevando che esso aveva compiuto una mangiata veramente notevole di frutta e verdure: un filare d’uva era stato accuratamente sgranato, erano state prelevate alcune verze e cappucci ed alcune pesche erano cadute dall’albero scrollato energicamente. Incredibile la quantità e qualità degli elementi vegetali, tale da far evitare all’orso vegetariano l’esca di carne predisposta all’ingresso nel bosco allo scopo di catturare l’animale e munirlo di radiocollare; il contadino certo non sarà stato contento. Ci siamo convinti della caratteristica di onnivoro dell’animale, non certo di un feroce carnivoro, come ingiustamente si cerca di farlo ritenere. Prima di lasciare i luoghi, abbiamo rilevato col gesso le orme delle zampe.

    L’orso quindi ama molto i rifiuti contenuti nei cassonetti per l’organico e per questo, o addirittura per foraggiamento o per altre cause, esso può diventare confidente.

    Sulla carenza di cassonetti anti-orso, da oltre vent’anni, salvo qualche rara eccezione, gli amministratori passati ed attuali si dovrebbero vergognare e sentirsi in colpa, perché sicuramente si sarebbe contenuta la presenza di orsi vicini agli abitati. Ma non solo: sono stati eliminati i guardia-parco ed affidata la gestione alle sole guardie forestali, è mancata una corretta e rapida documentazione di dove e di quanti siano i plantigradi, di dove siano le cucciolate; di quali siano le modalità aggiornate di comportamento, in caso di incontro e di strategie di difesa; non si è predisposto un sistema di comunicazione e la formazione di figure ideali che fungano da tramite tra la natura selvaggia e i cittadini.

    Ciò fa pensare che la strategia dei politici provinciali non sia quella di risolvere i problemi già individuati chiaramente al tempo dell’inserimento dei nuovi orsi, ma sia quella di avere più orsi problematici per poter ogni volta riprendere la campagna elettorale anti-orso ed apparire liberatori fieri e decisi, in ciò travisando la vera natura dei plantigradi, intelligenti, schivi e paurosi dell’uomo, salvo una piccola percentuale di orsi anomali.

  7. Olimpiadi invernali: una sceneggiata
    Servizi
    “Tutto va bene” - dicono lorsignori. Ma c'è qualche (grosso) problema.
    di Luigi Casanova

    C’è agitazione nella Fondazione Milano Cortina 2026. Nonostante gli sforzi e la complicità omissiva della maggioranza del mondo dell’informazione italiano, nonostante l’impossibilità di avere informazioni dirette dalle istituzioni,le preoccupazioni non si riescono più a nascondere. Eppure il presidente del CONI Giovanni Malagò fa il possibile per rassicurare: tutto va bene, stiamo recuperando, saranno le olimpiadi più sostenibili mai tenute. Sembra non crederci neppure il ministro dell’economia della Lega, Giorgetti, che in dichiarazioni pubbliche afferma di essere pentito per aver ospitato l’evento internazionale.

    Mancano meno di due anni allo svolgersi delle olimpiadi e paralimpiadi invernali Milano-Cortina 2026. Alcune opere sono appena state iniziate, di altre nemmeno si conosce il progetto.

    Nonostante che da oltre due anni ogni opera sia commissariata, con procedure amministrative semplificate, nessuna reale Valutazione d’impatto ambientale, affido delle opere in via diretta senza gare d’appalto europee, alcuni sindaci interessati vengono a conoscenza dei progetti, per lo più stradali, solo quando vengono convocati in Conferenza dei servizi.

    E lì non si discute più: si accetta o si subisce, si deve decidere perché non si può perdere tempo in sottigliezze. ANAS, Ferrovie dello Stato, Terna, i tanti progetti di partenariato pubblico privato non possono più attendere.

    Il cittadino italiano non è a conoscenza di nulla. La grande stampa informa solo sulla farsa della pista di bob. Perfino tre trasmissioni passate su RAI 3 nazionale, alcune di queste nell’insieme anche ben curate, hanno scelto di evitare le tre grandi emergenze delle prossime olimpiadi, con lo stravolgimento dei contenuti del dossier di candidatura del giugno 2019 grazie al quale L’Italia si è vista assegnare i giochi (in assenza di concorrenza, viste le contraddizioni della candidata alternativa, la Svezia, dove governo e città di Stoccolma erano su posizioni opposte).

    Vengono accuratamente evitati i tre pilastri che avrebbero dovuto sostenere l’evento olimpico: costi. sostenibilità, legacy.

    I costi

    Dovevano essere olimpiadi a costo zero, si spendevano solo i soldi destinati alla gestione dell’evento, 1,35 miliardi di euro (500 milioni dal CIO, 500 milioni dagli sponsor e lotterie, 350 milioni dalle Regioni e Province autonome interessate). Perché? Ovvio, stava scritto: il 92 % delle strutture sono già operanti, abbisognano solo di qualche riqualificazione minimale. Nonostante le evidenti smentite della realtà, Malagò, membro dell’esecutivo del CIO, presidente del CONI, presidente della Fondazione Milano Cortina 2026 e il ministro dello sport Andrea Abodi insistono. Non si informano i cittadini italiani di altri 3,6 miliardi previsti e già stanziati per la costruzione delle opere; e parliamo solo dei soldi stanziati dallo Stato. Non sono compresi i soldi assicurati dalle Regioni, dal PNRR, da Terna e Ferrovie dello Stato. Un totale certo di spesa che supera i 5 miliardi, ma che verosimilmente vola verso gli 8 miliardi.

    Qui sopra e nelle pagine seguenti: Cortina, 19 febbraio: immagini della manifestazione di protesta contro la costruzione della pista di bob.

    Perché una forbice tanto divaricata fra previsioni e realtà? Vedremo nei prossimi numeri come molte delle opere siano state demolite e vengano ricostruite: a Predazzo come a Tesero, in Valtellina come ad Anterselva, a Cortina come a Livigno.

    Olimpiadi “verdi”?

    Il secondo aspetto omesso riguarda la sostenibilità. Il dossier, recependo le indicazioni dell’Agenda olimpica 2020 del CIO, la direttiva europea e la legge nazionale del 2006, sostiene che tutte le opere nel loro insieme e nel profilo nazionale saranno sottoposte preventivamente a una Valutazione ambientale strategica.

    Il passaggio invece è stato considerato una perdita di tempo. Solo tale procedura avrebbe permesso di valutare l’impatto ambientale dell’intero evento e delle singole opere, ma anche l’opportunità di costruirle o meno, o se riqualificarle. Sicuramente la pista di bob e il villaggio olimpico di Cortina sarebbero stati cassati da subito, e altre opere, anche trentine e altoatesine, fortemente ridimensionate. La procedura VAS avrebbe permesso lo svolgersi del processo di sussidiarietà, quindi il coinvolgimento dei sindaci interessati, del mondo tecnico–scientifico, del volontariato compreso quello ambientalista. La VAS avrebbe permesso un percorso di trasparenza evitando la evidente militarizzazione dell’evento tramite l’imposizione dei commissari. Con il governo Meloni e la gestione Salvini dell’evento siamo arrivati al punto di commissariare alcuni commissari, fin dentro la società pubblica Si.mi.co, la società pubblica preposta alla progettazione, gare d’appalto, realizzazione e collaudo delle opere (gennaio 2024). I commissari delle opere stradali sono saltati, tutti. I compiti subcommissariati all’ANAS, Non lo si dice, ma oggi la Fondazione Milano-Cortina conta oltre 300 dipendenti e Si.mi.co un altro abbondante centinaio.

    Oltre alla sostenibilità si è quindi perso ogni passaggio di trasparenza e si sono violate leggi nazionali e direttive europee.

    Questo sistema opaco potrebbe permettere alla malavita di incunearsi in ogni regione italiana: le varie mafie in doppiopetto sono pronte al banchetto. Specie dopo la cancellazione del reato d’abuso d’ufficio, specie ora con l’imposizione della legge bavaglio all’informazione.

    Tanta segretezza non può che alimentare sospetti. Ma di cosa sarà accaduto in troppi cantieri ne parleremo dopo l’evento sportivo.

    Si sappia che la parola sostenibilità, su 127 pagine, figura ben 97 volte.

    E dopo che succederà?

    Il terzo aspetto, la legacy (cioè l’eredità che le opere lasceranno alle future generazioni) è il fondamento dell’evento olimpico. Così affermano Malagò e il ministro. Si diffonderà cultura dello sport, formazione, si invertirà la tendenza allo spopolamento delle montagne, ogni opera realizzata avrà la certezza di un suo prolungato utilizzo. Il brutto esempio delle Olimpiadi di Torino 2006 non si ripeterà nemmeno su aspetti minimali. Solo a guardare al passato, non solo italiano, non sembra che sul territorio le olimpiadi abbiano fin qui lasciato impronte positive. Vediamo Torino 2006: gli impianti della pista del bob, i trampolini e stadi del ghiaccio sono stati chiusi, abbandonati e vandalizzati. Come era accaduto in alcune piscine che hanno ospitato i mondiali di nuoto di Roma nel 2009, o a Napoli che nel 2019 ospitò le universiadi: stadi, piscine, palazzetti dello sport e campi di tennis abbandonati. Divenuti spazi utilizzati come discariche. Le federazioni sportive non li hanno utilizzati. E ora il ministro dello Sport, schierato a occhi bendati con Salvini a sostegno della pista di bob di Cortina, in una delle trasmissioni televisive (Mi manda RAI 3) ha serenamente presentato un dossier di 53 grandi impianti sportivi abbandonati nel nostro paese.

    Di legacy cosa rimarrà dopo le olimpiadi invernali 2026? Sicuramente la linea ferroviaria della val di Riga (BZ), qualche circonvallazione come Tai e Venas di Cadore, il superamento dei passaggi a livello nella linea ferroviaria della Valtellina, il villaggio olimpico di Milano e il palazzo di Assago.

    Ma per il resto è facile prevedere il riversarsi di una colata di cemento che interesserà ancora la viabilità della pianura padana (Malpensa-Lecco), la Valtellina, Bormio, Longarone e Cortina d’Ampezzo, opere nemmeno iniziate che a oggi dovrebbero costare nel loro insieme oltre 3 miliardi di euro. E poi gli inevitabili collegamenti sciistici: Tonale-Bormio-Livigno in Lombardia, il devastante, definitivo assalto alle Dolomiti con i tre collegamenti Cortina-Badia, Cortina-Arabba, Cortina-Alleghe... una pugnalata mortale. È certo che i nostri giovani non avevano bisogno né dell’ulteriore sviluppo delle aree sciabili, né di cemento e asfalto nelle vallate. Nel contempo in tutte le montagne interessate la sanità viene privatizzata, l’accesso al mondo scolastico è sempre più impegnativo, la formazione del lavoro è assente e in troppe vallate manca ancora la banda larga, la mobilità pubblica viene demolita. Che ci si soffermi sullo scandalo della pista di bob per evitare di discutere dei temi strategici per il futuro delle montagne italiane?

    Il piano della trasparenza si lega strettamente ai tre obiettivi sopra descritti. I commissariamenti delle opere non aiutano né i cittadini né le associazioni interessate ad avere chiarezza. Si è coperto il tutto con fitti veli, sempre più opachi. L’aver affidato ad ANAS molte delle opere previste preoccupa. Lo denunciava già 60 anni fa Antonio Cederna, parlando di un un ente che progetta senza mai tenere conto né dei diritti di chi guida e men che meno dei bisogni reali delle comunità locali. Vedasi la variante di San Vito di Cadore, le tangenziali di Sondrio e Longarone, o la bretella di Bormio.

  8. Salvini attacca l'Austria. E Bolzano tace.
    Lettere e interventi
    di Brigitte Foppa, Madeleine Rohrer, Zeno Oberkofler, consiglieri provinciali sudtirolesi del gruppo Verde.

    Dopo mesi di minacce, il ministro dei Trasporti italiano fa attivare la procedura prevista dai trattati per l'eventuale violazione della legge UE a causa delle restrizioni al valico alpino. Questo attacco è in perfetta sintonia con il personaggio, le politiche e la visione di Salvini, non c’è dubbio. Che il traffico scorra e che non diminuisca mai.

    Destano preoccupazione le conseguenze regionali e ambientali di questo passo di Salvini. Perché la Giunta Provinciale sudtirolese, nonostante il pesante attacco all‘Austria, cerca di tenere un profilo basso. Il Presidente Kompatscher al massimo invita al “dialogo”. Non si percepisce nessuna solidarietà con la “potenza protettrice”, né con il Land del Tirolo. Neanche una parola in difesa delle persone che vivono lungo l’asse del Brennero alle quali anzitutto giovano le misure austriache.

    Il silenzio a Bolzano può essere spiegato. Primo, non si vuole disturbare in nessun modo la ancora fragile coalizione di governo tra SVP, Lega Salvini e Fratelli d’Italia. Evidentemente ci si preoccupa più di possibili successi politici a Roma che della salute delle persone in Alto Adige. Già alla seduta congiunta dei consigli provinciali del Tirolo-Sudtirolo-Trentino nello scorso giugno a Riva del Garda si capiva. Allora la SVP respinse tutte le proposte in difesa delle misure austriache e rimase fedele a Salvini, probabilmente in vista delle elezioni provinciali. E in barba alle promesse di protezione del clima e di sostenibilità.

    In secondo luogo c’è la decennale questione dell’A22, la cui soluzione dipende in larga misura da Salvini.

    Mentre a Innsbruck e Vienna si dà la precedenza alla salvaguardia della salute e alla quiete di cittadini e cittadine, a Bolzano si sta in sordina. Il tanto declamato sistema digitale dei flussi del traffico porta sollievo solo se il transito dei TIR resta in una misura sopportabile per le persone che ci vivono accanto, specie nelle ore notturne.

    In questo penoso silenzio della Giunta Provinciale rispetto all’attacco romano alla “potenza protettrice” si vedono le prime conseguenze della coalizione della SVP con la Lega Salvini e Fratelli d’Italia. Le prospettive per la riduzione del traffico e la precedenza per la salute delle persone sono davvero buie.

    I consiglieri verdi invitano il Presidente Kompatscher a prendere posizione chiaramente sulla questione – e gli chiedono di spiegare come vuole adeguare finalmente il flusso del traffico sull’asse del Brennero alle esigenze delle persone che ci vivono. È in ballo la qualità della loro vita, e la loro vita stessa.

  9. ITEA, l’incuria
    Cover story
    L’ITEA non si cura delle spese di riscaldamento, che travolgono la vita degli inquilini
    di Laura Mezzanotte

    Per raccontarvi la vera storia della “crisi delle bollette pazze” dei condomìni ITEA dobbiamo partire da lontano, perché la tempesta perfetta che abbiamo visto esplodere nelle ultime settimane, con decine di avvisi di sfratto già inviati e centinaia di altri in arrivo, motivati dalla morosità sulle spese condominiali, comincia in realtà nel 2020. E dovrete avere la pazienza di seguirci passo passo in questa ricostruzione degli eventi che, spoileriamo un po’, ci porterà alla conclusione che ITEA non ha fatto bene il suo lavoro.

    Dunque, verso la fine dell’anno primo del Covid, in molti condomìni fino a quel momento gestiti in toto dall’ITEA, c’è un cambiamento epocale: si passa dalla gestione onnicompresiva di ITEA a quella di amministratori privati. La ragione è in una recente legge nazionale secondo cui, quando in un condominio ci sono più di otto proprietari, è obbligatorio nominare un amministratore professionale.

    Questa è ad oggi la situazione di molti complessi dove, nel tempo, una parte degli inquilini ha riscattato il proprio alloggio e ne è diventato proprietario. In Trentino, ha affermato l’anno scorso Francesca Gerosa, allora presidente dell’Istituto, ci sono ben 307 grandi edifici in questa situazione.

    Vi facciamo l’esempio delle torri di Man. Su 14 torri, ormai solo due sono in totale proprietà dell’Istituto provinciale per la casa. Di questi ultimi ITEA ha mantenuto l’amministrazione. Nelle altre 12 ci sono parecchi piccoli proprietari. Ma attenzione: in quasi tutti ITEA mantiene una quota di proprietà che va oltre la maggioranza dei millesimi proprietari. E la stessa situazione di preponderanza si trova in molti altri dei 307 condomini “misti”. Quindi dichiararsi, come è stato fatto spesso da ITEA, un normale condomino è una presa in giro: nelle assemblee condominiali l’istituto poteva di fatto decidere tutto in assoluta autonomia.

    Il passaggio comunque non è semplice. È praticamente una partenza da zero: ad esempio, in molti edifici è necessario perfino fare la ripartizione dei millesimi di proprietà, parametro fondamentale per l’attribuzione delle spese condominiali.

    Non sappiamo tutto di come sia stato gestito il passaggio, ma una cosa è certa: ci sono casi in cui anche i piccoli proprietari avevano chiesto ad ITEA di assumere il ruolo di amministratore. Ma ITEA graziosamente declina, affermando che non vuole fare l’amministratore perché “al momento non sussistono le capacità di organico e professionalità per far fronte a tale impegno”.

    Prima domanda: e prima chi faceva questo lavoro? Visto che comunque fino a quel momento i condomìni li aveva gestiti in proprio?

    Abbiamo raccolto una voce, che vi giriamo, senza conferma: ad un certo punto ITEA avrebbe riorganizzato gli uffici smantellando quelli che si occupavano delle amministrazioni degli stabili.

    Dai documenti in nostro possesso poi ricaviamo la sensazione che l'Istituto sia ben contento di potersi liberare del complicato lavoro di gestire gli stabili. Vedendo come sono proseguite le cose, potremmo perfino ipotizzare che ITEA si disinteressi proprio di come vengono gestiti i condomìni.

    Il secondo problema che si pone, subito dopo la “privatizzazione dell’amministratore”, è quello dei contratti che il condominio deve stipulare (e che prima erano in capo a ITEA la quale poi suddivideva le spese tra gli inquilini): si va da quelli per la manutenzione degli ascensori, alla polizza di assicurazione e così via. Compreso quello che riguarda il riscaldamento degli edifici, praticamente tutti con sistemi centralizzati.

    Storia di una torre Itea

    Da qui in poi vi raccontiamo la storia di una specifica torre di Man, quella per la quale abbiamo la documentazione più o meno completa. Tenete presente però che abbiamo vari indizi (documenti) che ci consentono di considerare la storia della nostra torre-tipo come uno schema che si è ripetuto in molti casi, e non solo a Trento.

    A metà 2021 quindi si deve decidere da chi comprare il gas per il riscaldamento. Nell’assemblea della nostra torre vengono presentati tre preventivi di possibili fornitori.

    Quello che viene scelto, apparentemente il più economico, è proposto da una società che si chiama Comat spa, con sede a Rivoli, provincia di Torino.

    Un inciso: gli amministratori “privati” che si sono aggiudicati il contratto per l’amministrazione degli ex-ITEA non sono molti. Sia a Trento che a Rovereto che a Riva del Garda girano sempre gli stessi tre o quattro nomi.

    Niente di strano: i complessi sono grandi e richiedono amministratori con un’organizzazione dei propri uffici che non tutti i professionisti del settore hanno.

    In molti casi anche i preventivi proposti per il gas sono più o meno gli stessi dappertutto. E la Comat si aggiudica parecchi di questi contratti di fornitura. Non sappiamo quanti, ma sul totale è una partita commerciale che conta gli euro in milioni.

    Torniamo alla nostra torre, dove ITEA potrebbe fare il bello e cattivo tempo. Invece approva il contratto con Comat senza fare un plissé.

    Seconda domanda: chi ha controllato quel contratto prima di firmarlo? A nostro avviso doveva farlo in primis l’amministratore, ma poi anche il superproprietario ITEA.

    Per tre motivi.

    Primo, perché ITEA deve sapere che sta lanciando i propri inquilini (quelli che per mission istituzionale deve aiutare) nel mare tempestoso del mercato del gas. Inquilini che fino a quel momento godevano di un contratto stipulato da ITEA con Edison per tutti i propri stabili. Provate a immaginare che condizioni commerciali può ottenere un soggetto come ITEA per tutte le sue proprietà. Tanto che vari condomìni chiedono di potersi accodare a quel contratto, ma, per ragioni secondo noi un po’ strumentali, ITEA dice che non si può fare.

    Secondo, anche per il banale motivo che ITEA paga, con i nostri soldi, una quota di quei costi. Tutti i costi fissi di riscaldamento relativi agli appartamenti vuoti (e solo alle torri di Man ce ne sono parecchi a quanto pare).

    Terzo, perché, da codice civile, le spese condominiali non pagate dall’inquilino ricadono sul proprietario. Che poi magari lo sfratta, ma i costi restano del proprietario, cioè noi, posto che ITEA riceve i propri fondi dalla Provincia.

    Infine, in quel momento, c’è un motivo in più: il prezzo del gas era salito sulle montagne russe già da un po’, visto che il contratto della nostra torre viene firmato a ottobre 2021. Pensate solo che tra giugno e ottobre di quell’anno il prezzo del gas all’origine era triplicato.

    Il mondo dei contratti del gas è un delirio tecnico-giuridico. Capire se un contratto è davvero conveniente richiede esperti del settore. Niente che possiamo fare noi, voi e nemmeno i piccoli proprietari. Forse invece gli uffici tecnici dell’ITEA un’idea ce l’hanno. O dovrebbero averla. A vedere le conseguenze di oggi, si direbbe che non l’abbiano nemmeno letto.

    Perché ci siamo fatti spiegare per bene quel contratto e ci sono aspetti che avrebbero dovuto far suonare campanelli d’allarme.

    Prima di tutto questa Comat non è un fornitore diretto di gas, ma un intermediario.

    In Italia i fornitori diretti di gas - come sono ad esempio Dolomiti o Eni - sono iscritti in una specie di albo del ministero dell’Ambiente e Sicurezza Energetica.

    Comat invece è una società che si occupa di efficientamento energetico. Sia sul piano del miglioramento degli impianti, che su quello della gestione del calore. Il contratto della nostra torre però non prevede alcun miglioramento strutturale degli impianti, ma semplicemente la vendita del gas. Che Comat a sua volta deve comprare da uno dei fornitori accreditati.

    Se il mercato del gas è una follia, quello dell’intermediazione è una roulette russa, dove operano soggetti di ogni tipo. Scegliere, apparentemente senza nessun controllo all’origine, un soggetto di questo genere è decisamente poco accorto. In ogni caso le cose, magari, sarebbero potute andare più o meno lisce, se il prezzo del gas non fosse impazzito.

    Secondo spoiler: ITEA, da due anni, ripete che le bollette pazze non sono colpa sua, dipendono dai prezzi del gas andati alle stelle. Leggendo il contratto Comat della torre-tipo dobbiamo dissentire.

    I conti Vi diamo qualche cifra per i confronti. Abbiamo preso una bolletta di casa a mercato libero. Tenete presente che i condomìni ITEA sono in una categoria in parte tutelata e quindi godono di un prezzo decisamente calmierato rispetto al nostro esempio.

    Tra l’inverno 2020-2021 e quello 2021-2022 il costo del riscaldamento di casa è quasi raddoppiato, da 800 a 1500 euro circa. L’inverno successivo, 2022-2023, il costo è andato a due volte e mezzo rispetto al primo anno preso in considerazione e arriva a quasi 2.500 euro.

    Il problema, con la nostra torre tipo, è che nell’inverno base 2020-2021 vengono spesi circa 40mila euro per il riscaldamento. Il costo preventivato dal contratto Comat per l’inverno successivo è di circa 45mila euro più iva. Ma a fine stagione si arriva a 118mila euro e nell’inverno 2022-2023 quadruplica a 162mila euro.

    Secondo i parametri che ci siamo fatti sulla casa singola, il conto corretto anche in condominio sarebbe dovuto essere intorno agli 80mila euro per l’inverno 2021-2022 e circa 100mila per il 2022-2023. In realtà il prezzo del gas nell’inverno scorso era di fatto triplicato, ma tutti noi siamo stati sparagnini con il riscaldamento, terrorizzati dal prezzo del gas. E anche nella nostra torre i consumi devono essere stati meno del consueto, visto che alcuni inquilini ci hanno detto che in casa faceva freddo.

    In due anni quindi i condomìni della torre tipo, secondo noi, hanno pagato 80mila euro in più del dovuto, pur calcolando sul prezzo libero del gas.

    Una prima ragione di questa differenza inspiegabile potrebbe essere che da ottobre 2021 il governo - per cercare di tamponare una situazione oggettivamente fuori controllo - ha tagliato drasticamente l’Iva sul gas dal 22 al 5 per cento e ridotto anche i cosiddetti oneri di sistema per un altro 2,5 per cento. In pratica dal totale delle bollette ha tolto quasi un 20 per cento che tutti noi abbiamo risparmiato. Ma non gli inquilini che avevano il contratto con Comat.

    Perché Comat ha sempre fatturato i costi più il 22 per cento di Iva. E non sappiamo se abbia scalato i costi di sistema.

    Può anche darsi che non potesse fare diversamente. Perché, essendo un intermediario, vende fiscalmente servizi e non gas. Quindi non poteva tagliare l'Iva sulle sue fatture. Anche se la società, di suo, l’Iva l’ha pagata al 5 per cento, visto che fiscalmente è lei ad essere l’utilizzatrice finale del gas.

    Ma chi ha firmato quel contratto si è posto il problema di cosa comportava avere un intermediario invece che un fornitore diretto?

    Tenete inoltre presente che all’articolo 30 del suddetto contratto, Comat dice che “eventuali contributi pubblici… saranno di pertinenza di Comat Servizi Energetici spa”. E probabilmente non sapete che il governo, per dare una mano ai grandi consumatori di gas, ha concesso tra il 2022 e il 2023 dei cosiddetti “crediti energetici” misurati sul consumo. Cifre che possono ballare tra il 5 e il 10/12 per cento dei costi sostenuti e che il consumatore - che è sempre Comat, per il fisco - poteva usare per pagare le tasse.

    Comat li ha avuti? Ci sono buone ragioni generali per pensare che possa averli avuti. Però non lo sappiamo e la società non ha nessun dovere di dircelo. E sicuramente non li ha “regalati” alla nostra torre.

    A questo punto potreste giustamente obiettare: ma se il contratto originale era conveniente, come è possibile, legalmente, far andare i conti alle stelle? Qui succedono alcune cose anomale.

    La premessa è che il prezzo unitario che si trova nel contratto Comat sembra fisso, ma non lo è. C’è un meccanismo bizantino di aggiornamento del prezzo legato alla crescita della materia prima gas che consente variazioni anche grandi del prezzo unitario, e magari farsi venire un dubbio su quel meccanismo era una bella idea, se qualcuno avesse letto le carte prima di firmare.

    Poi, a contratto già in corso, ci sono due passaggi fondamentali.

    Il primo è che - firmato il contratto il 1° ottobre 2021 - viene chiesta a marzo 2022 una “rata straordinaria”. Che equivale a oltre due terzi in più del costo preventivato. Quindi sui circa 45mila più Iva del preventivo si chiedono altri 36mila200 euro, sempre più Iva.

    Una banale letterina mandata agli amministratori dei condomini.

    Che a quel punto avrebbero dovuto cadere dalle sedie e correre da ITEA a dirgli “Houston, abbiamo un problema!

    Ma anche se non l’hanno fatto, ITEA autonomamente avrebbe potuto (e dovuto) accorgersi che stava esplodendo una bomba, perché la richiesta straordinaria è stata riversata subito sulle rate dei condomìni, che hanno visto arrivare spese condominiali come se piovesse.

    Solo a fine 2022, con gli inquilini scesi in strada coi forconi (metaforicamente), con i conti chiusi e con fatture probabilmente non più contestabili legalmente, ITEA, per bocca della sua presidente Francesca Gerosa, dice pubblicamente che stanno facendo dei riconteggi. Dando il via al peana che comunque “è colpa del gas”.

    La tempesta perfetta a quel punto aveva già preso una forza difficile da contenere.

    Dai riconteggi annunciati via stampa gli inquilini non hanno visto nessun risultato.

    Ma mentre Francesca Gerosa parlava di riconteggi, Comat il 22 ottobre 2022 inviava agli amministratori un’altra bella letterina, in cui sostanzialmente cambiava il parametro per determinare il prezzo del gas e di fatto lo trasformava da prezzo fisso com’era in origine (anche se i bizantinismi contrattuali davano a Comat un ampio margine di manovra) a prezzo variabile che quindi segue le fluttuazioni del mercato.

    La forza contrattuale di Itea: non pervenuta

    In quel momento il prezzo del gas era molto alto e sarebbe salito ancora per poco. Ma gli addetti ai lavori in quel momento prevedevano già un vero e proprio crollo del prezzo nei mesi a venire.

    In ogni caso Comat si cautela. Dice che prende come prezzo base quello del mese di novembre 2022 (molto alto). E dice pure che se le fluttuazioni dovessero variare del 10 per cento o più manderà un’altra comunicazione per rifissare il prezzo. Ma, aggiunge, “tale rideterminazione sarà una mera facoltà di Comat”. Noi la leggiamo così: se il prezzo sale ti chiedo i soldi, se scende non ci penso nemmeno ad abbassare il prezzo.

    Questa lettera però deve essere firmata per accettazione dai clienti: è a tutti gli effetti una variazione del contratto.

    Qualche amministratore la firma, qualcun altro no.

    Comat, riteniamo, continua a fatturare al prezzo esplosivo di novembre 2022. La nostra ipotesi è che da qui derivi la quadruplicazione dei costi che abbiamo visto sopra. Ma il prezzo del gas, da gennaio 2023 scende in un mese di un terzo e subito dopo si dimezza.

    ITEA ha visto questa variazione di contratto? Ha valutato se fosse possibile trattare?

    Perché una cosa è il singolo amministratore che dice no, non firmo, ma ha il problema di un braccio di ferro col fornitore che se non ottiene quel che vuole si dice pronto a chiudere il gas nel pieno dell’inverno. Un’altra è che la signora ITEA tiri su il telefono e chiami il capo della Comat e gli chieda, dritto per dritto: “Che c…o state facendo?” (La signora ITEA non direbbe mai “che c…o”, ovvio, ma il concetto è quello). Ottenendo, verosimilmente, un veloce rinculo della Comat. Qualche amministratore comunque prova a trattare e qualcosa ottiene. Ci sono infatti torri che hanno avuto degli sconti corposi sul totale dei costi. Non tutte. Ma sono la prova che si poteva trattare.

    Ma ITEA su questi aspetti doveva mettere tutto il suo peso contrattuale. Che esiste e non è piccolo.

    Invece l’unico momento in cui l’Istituto si manifesta, con la forza di un ectoplasma, è al momento di chiudere i conti del 2022-2023, a luglio scorso. In assemblea il rappresentante di ITEA dice che si astiene sull’approvazione del bilancio. E fa sapere in giro che stanno facendo ricalcoli perché anche agli uffici dell’Istituto, qualcosa non torna.

    Ci sono vari casi di condomìni ITEA dove le assemblee non hanno approvato i bilanci consuntivi del 2023 proprio per le spese di riscaldamento.

    Partono gli sfratti

    Ora che abbiamo sondato in dettaglio, per quanto possibile, le cause delle bollette pazze (che sarebbero state comunque alte, ma probabilmente non pazze), cosa possiamo dire della decisione di ITEA di far partire gli sfratti contro inquilini che non sono riusciti a pagare le cifre folli che sono state richieste? Tenete presente che quasi tutti gli inquilini hanno pagato una parte dei costi, fin dove potevano. E forse, con conti più corretti, magari rateizzando, sarebbero riusciti a superare il momento difficile. Invece si ritrovano con degli sfratti che non fanno altro che aumentare il caos della situazione.

    L’Istituto Trentino Edilizia Abitativa ha mancato completamente ai suoi compiti istituzionali, in questa situazione. E la gestione di Francesca Gerosa, che l’ha diretto fino a novembre scorso, si è dimostrata viziata da un’incuria difficile da immaginare.

    Un solo esempio: se a marzo 2022 qualcuno avesse preso nota dell’aumento straordinario richiesto, sarebbe stato possibile, per l’inverno successivo, fare un cambio di fornitore, visto che i contratti sono annuali. Il problema è stato lasciato a marcire.

    Quanto alla Provincia, l’azionista di ITEA, non ha vigilato apparentemente in nessun modo perché il presidente Fugatti si è accorto che esiste un problema casa (che va ben oltre quello delle spese) solo quando la bomba gli è scoppiata in faccia.

    Quello che vorremmo è che il Consiglio provinciale varasse una commissione d’inchiesta per controllare con precisione quali azioni e decisioni ha preso ITEA su questa specifica vicenda nel corso degli ultimi due anni.

    Ma state tranquilli: lo sappiamo che ci stiamo illudendo.

    Post scriptum: le due torri di Man ancora sotto gestione diretta ITEA non hanno subìto, a detta degli inquilini, gli stessi enormi aumenti del riscaldamento delle altre 12. Quindi un modo per tenere le persone al riparo da un mercato furioso, evidentemente, c’era. Bastava volerlo.

  10. La guerra vicina
    Lettere e interventi
    di Thomas von Lutterotti

    360 kmq, la striscia di Gaza ci sta tutta nella Valle di Non con i suoi 590 kmq, un po' più lunga ma più stretta; allora Rafah è la Rocchetta, più oltre non si va.

    Ogni puntino rosso su una mappa satellitare un edificio demolito. Fondo spianata, Cles non ne parliamo, Taio idem. I meli fanno posto alle tendopoli, i magazzini trasformati in rifugi di emergenza, scuole e asili tutti in cenere, ma i bambini non se ne rallegrano.

    Personale sanitario, pochi resistono; ai giornalisti, vietato l'accesso, e questi aerei non la smettono: non è nebbia, sono nuvole di fumo, dappertutto. Ponti sul Noce non ghe n'è pu. Prima o poi faranno saltare la diga di Santa Giustina.

    A Mostizzolo sbarrano i camion di aiuti, venuti addirittura dalla Valtellina per il Tonale. Mendola e Palade completamente occupati dai militari con artiglieria pesante, Andalo a Molveno, ultimi rifugi, ma chissà per quanto tempo,Ma perché nessuno li fa smettere?

    I morti, nel burrone, perché cimiteri dopo le ruspe non ce ne sono più. Acqua: dopo la diga, a Tovel ce n'è ancora un po', che venga distribuita saggiamente?

    Degli stupri, dicono, ma non sanno bene dove, a Revò o a Cunevo, già se ne parla meno.

    Sì, ci sono stati attacchi mirati dei soliti fanatici ostinati, contro caserme dei carabinieri in val d’Ultimo, colti impreparati da una cruenta azione crudelmente pianificata.

    Bambini decapitati? Ma che storie! Anche se l'imperatore, quello d'oltre mare, continuava a ripeterlo, senza aver visto neanche una foto: gli piaceva la notizia, poco importa se “fake”

    Amalek? Come ha fatto un testo così spietatamente feroce a essere canonizzato in un cosiddetto libro sacro? “Parola di Dio”? Usurpiamo la divinità per legittimare la conquista?

    Anauni, anche loro cominciano con la A, adesso Nonesi, ma un po’ sono gli stessi di altra fede, più recente e quindi meno veritiera? Beh, con tutti questi profeti alla fine si sono adattati, anche se quel Vigilio non lo hanno seguito subito.

    Va bene, però dicono che gli abitanti della valle non esistono neanche, e se fanno troppi bambini ne eliminano un bel po', cancellano il futuro.

    A allora, la ragione? Gli piace la valle; sfido, col lago, gli altipiani e le montagne. Hanno già installato delle loro villette alle Regole di Castelfondo, senza regole, e poi si dice che ci sia un giacimento di metano in fondo al lago, un po’ fuori dalla riva. Inventano la storia che, quando poche famiglie erano venute ai tempi di Tiberio Claudio, qui non c'era nessuno, che balle!

    La Tavola Clesiana? Per loro una prova confutabile di nessuna rilevanza; d’accordo, ancora prima quell' Abramo dalle parti della Valsugana o addirittura da Fiera di Primiero era benvenuto, e l'hanno accolto benevolmente. Poi ha messo su un’azienda, ma andavano d'accordo.

    Adesso però dicono che c'era solo lui, e oggi poi quelle feste in discoteca... Si mettono a ballare e cantare con tanto di scope in mano che dimenano a più non posso, la canzone della pulizia, boh...

    Pare siano venuti da Proves e S.Felice, perché erano già dall'altra parte; ormai sono a Crescino, controllano le strade e i centri, gli abitanti, su per le montagne in malghe e rifugi sovraffollati. Ma proprio nessuno che interviene? Sì, il Suditalia pare abbia interpellato la Corte, no, non quella dell'imperatore, una di giustizia, proprio loro, così lontani e poco importanti

    Non c'è nessun oggi da pensare a un domani, è come se il tempo si sia fermato, per fargli finire quello che vogliono finire. E poi?

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