Testo fisso

 Per la politica dell'ambiente                                   Chi lotta può perdere,chi non lotta ha già perso! Guevara                                          

La centrale Idroelettrica di Campagnola

  

 

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Premessa 

  

Per ricordare quanti hanno lavorato e i molti che hanno perso la vita nei lavori di costruzione della Centrale Idroelettrica di Campagnola abbiamo ritenuto opportuno pubblicare un articolo piuttosto corposo  in gran parte tratto dal lavoro di  Mattia Pelli dal titolo  "Il Trentino degli anni '50: dipendenza e sottosviluppo" .            

 

Un doveroso riconoscimento alle persone , alla volontà della Nazione di riemergere dall'abisso della Guerra, un invito all' Amministrazione a ricordare e farsi  ogni tanto protagonista e partecipe .

 

Pochi di questa come delle precedenti amministrazioni è consapevole dei benefici che la Centrale di Campagnola porta alle Casse Comunali. Il lascito non è stato solamente nel dare lavoro e occupazione ma consentire  sin da quei lontani anni una rendita pressoché perpetua che viene erogata al Comune attraverso il Consorzio Imbrifero Montano (BIM). Gran parte dei c.a. 100.000 €    l'anno riconosciuti alla Città e al suo Territorio per mancato utilizzo delle acque, provengono appunto dalla Centrale di Campagnola. Quando le Centrali e le altre infrastrutture produttive  presenti sul territorio saranno soggette al pagamento dell'IMU le risorse finanziarie aumenteranno considerevolmente con la speranza non vengano utilizzate per i fuochi artificiali.

  

 

La centrale Idroelettrica di Campagnola.

 

Storie di  “ordinario Lavoro “

 

1950, l'Italia uscita da quattro anni da una devastante Guerra , era sballottata ancora in una crisi economica mondiale che strangolava l'intera Europa e vacillava scossa da una situazione politica definita ma non ancora completamente assestata.

 

L'economia era di sussistenza e  nonostante   le grandi risorse fornite  dal Piano Marshall doveva ancora essere ricostruita la struttura portante di una società .  La rete viaria , stradale e ferroviaria erano a pezzi, 6.000 i ponti da ricostruire, il tessuto industriale da costruire, avviare e riconvertire in una economia di pace, porti, città, campagne erano state rese irriconoscibili dalla guerra che per due lunghi anni aveva interessato direttamente l'intero territorio metropolitano.

 

 Masse di disoccupati o sottoccupati stazionava nelle città e nei paesi, la richiesta di lavoro  costituiva la maggiore delle tante preoccupazione dei governi siano essi nazionali o locali. La creazione di lavoro era di vitale importanza per la sopravvivenza della nazione e delle istituzioni democratiche ancora gracili.

 

 Era il tempo nel quale ci si offriva “ a giornata” , si contrattava una sola giornata di lavoro, quanto bastava per mangiare e per  continuare a sperare nel giorno successivo. Una forma di lavoro della quale si pesava di aver perso la memoria ,  ricomparsa al tempo della Grande depressione , o drammaticamente presente nel secondo dopoguerra in tutti i comparti lavorativi, dall'agricoltura all'industria, all'esilia . Una forma di bracciantato da sempre presente nelle regioni depresse e che nella moderna Globalizzazione sembra abbia notevoli possibilità di imporsi come nuovo modello di lavoro.

 

 Ala viveva forse il suo periodo più buio.  Non vi erano fabbriche, la cartierina era prossima e con i suoi0 posti di lavoro sarebbe stata un boccata di ossigeno e di speranza per la città, la Slanzi era lontana come pure il calzificio Crosina e lontane nel futuro le fabbriche figlie del boom degli anni sessanta.

 

 L'imprenditoria privata muoveva i primi passi e tutto era affidato alle grandi commesse ed iniziative pubbliche. E infatti molto simile al Newdeal  roosveltiano era lo sforzo dello stato negli  investimenti E così anche Ala e il suo territorio furono interessati da alcune grandi opere.

  

La Nazione aveva fame di energia e ancora una volta come nei precedenti decenni la risorsa naturale rappresentata dalle acque fu veicolo di  speranza, lavoro e crescita.

 

 Era stato da poco ultimato lo sbarramento SIMA – la diga - , ricostruita la stazione telefonica, completati i ponti sul torrente Ala quando nel 50 prese avvio la monumentale costruzione della centrale idroelettrica di Campagnola e del canale in galleria proveniente da Mori.

 

  

 

 Caratteristiche dell'opera

  

planimetria generale

 

La centrale è costruita completamente in caverna; rientra tra le centrali "ad acqua fluente".

 

Sono centrali a funzionamento continuo e sono il tipo di impianto idroelettrico più diffuso. Per la produzione di energia elettrica sfruttano la differenza di altitudine tra il pelo d’acqua superiore e quello inferiore, il cosiddetto salto.

 

 

  

Ciò può avvenire per mezzo di uno sbarramento nell’alveo oppure anche deviando l’acqua attraverso un sistema di condotte. Le centrali ad acqua fluente lavorano in modo continuativo, 24 ore su 24.

 

 

planimetria centrale

 

  Il periodo di massima attività nella costruzione di opere idroelettriche, considerando che i tempi di costruzione variavano da 2 a 6 anni, è quello compreso tra il 1948 e il 1955. L’economia nazionale era allora in ripresa e aumentava dunque la sua domanda di energia, così le grandi società ripresero il programma di costruzioni che avevano abbandonato nel 1930.

 

 

planimetria centrale 1Negli anni successivi alla guerra erano in costruzione in Trentino gli impianti di S. Giustina della Edison, quello di Caoria della SMIRREL, quello di S. Massenza della SISM e quello sull’Adige tra Mori ed Ala, della SAFEV-Società Anonima Forza Elettrica di Valeggio sul Mincio (VR) che assieme alla Montecatini dà luogo alla formazione di una nuova società, la Società Elettrica Ala (SEA).

 


 

  

 

Centrale idroelettrica in caverna a Campagnola di Ala

 

                                                                                                                                                                                                      

 

assonometria generale

 

 

 

Anno di costruzione

1953

Tipologia

Idroelettrico

Potenza

38 MW

N. Gruppi

2

Salto

28,25 m

Portata

200 m³/sec

Producibilità

281 GWh

Tipo macchinario

Kaplan ad asse verticale

 

 

 

Laufwasserkraftwerk it 01Il principio di funzionamento di una turbina di tipo Kaplan è quello dell’elica di una nave. In pratica la girante della turbina è immersa nel flusso d’acqua che fa girare le pale dell'elica La Kaplan, grazie alla possibilità di regolare l’angolo di incidenza della pale, ha il pregio di funzionare con rendimento ottimo anche con grosse variazioni della portata. Questa turbina viene utilizzata per bassi dislivelli con grandi portate.

 

                                               

 

 

energia-elettrica clip image034

 

Sezione frontale di una Turbina tipo Kaplan

 

  

 Documentazione fotografica delle varie sezioni della centrale

 

Le fotografie, dei F.lli Pedrotti, sono tratte dal sito "Lombardia beni culturali-fondo Edison"

 

 

 

assonometria

 

 

 

3dcapX001    canale di restituzione

 

 

 

 

 

 3dcapX002 diffusori

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

3dcapX003   centrale

 

 

 

   

 

3dcapX004   camera di alimentazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3dcapX005   galleria in pressione

 

 

 

  

 

3dcapX006   camera di espansione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3dcapX007

 

 galleria di accesso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3dcapX008

 

 accesso esterno

 

 

 

 

 

 

3dcapX009

 

 scarico sfioratori

 

 

 

 

3dcapX010

 

 dissipatore

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Condizioni di Lavoro*

 

  

 

Le condizioni di lavoro degli operai addetti alla costruzione dell'impianto di  Ala, come di tutti gli altri impianti idroelettrici dell'epoca, sono ben rappresentate nel libro di Mattia Pelli  "Dentro le montagne".

 

  

libroMattia Pelli ricostruisce la vicenda umana dei lavoratori giunti da tutte le parti d'Italia per lavorare alla costruzione delle centrali. Attraverso la testimonianza di un sindacalista - Rino Battisti -, grazie alla documentazione di archivio, descrive il duro faticare di operai e minatori. Una storia, al tempo stesso, drammatica ed eroica, vissuta a continuo contatto con la morte; un' esistenza dura, spesa tra il rumore delle perforatrici, le pericolose esplosioni delle mine e le baracche fatiscenti, in condi­zioni di vita e lavoro al limite del sopportabile. 

 

 

 

Le condizioni di vita e di lavoro degli operai idroelettrici

 

È la stessa Associazione degli industriali del Trentino a fornire i dati che descrivono questa realtà: nelle imprese edili della provincia nel 1946 lavoravano 3774 dipendenti, mentre nel 1949 questo numero era salito a 7337.

 

Su Il Proletario divengono allora frequenti gli interventi di Sisinio Tribus in cui vengono descritte le lotte e le questioni relative alla categoria. Dal numero del 24 settembre del 1949 il minatore, colui che lavora allo scavo delle gallerie degli impianti idroelettrici, diventò il protagonista di una rubrica nella quale si affrontavano, oltre alle questioni legate al cantiere e alla fatica quotidiana del lavoro, questioni politiche più ampie.

 

Ma di edili e dei cantieri idroelettrici comincerà ad occuparsi anche Lotte sindacali, il periodico dei sindacati liberi della provincia, così come Mondo del Lavoro, il mensile delle ACLI trentine.

 

A colpire è soprattutto le descrizione delle condizioni terribili in cui i lavoratori dei cantieri idroelettrici vivevano (per molti di loro, venuti da fuori, la casa sono le baracche del cantiere) e soprattutto lavoravano, esposti a ogni tipo di pericolo, dalla esplosione imprevista di una mina alla silicosi.

 

 

Scriveva Giorgio Zeni, assistente sociale, raccontando dell’afflusso durante la buona stagione di lavoratori dalle altre province:

 

 

«[...] non tutti vengono assunti immediatamente e molti, per il continuo afflusso, si trovano senza disponibilità di denaro e devono affidarsi all’assistenza pubblica. I locali disponibili vengono occupati e sovraffollati dai pochi lavoratori in possesso di qualche soldo, mentre gli altri se ne stanno ai margini della strada, finché non capita una persona caritatevole che raccoglie e ospita nella propria casa le decine e decine di lavoratori che mutano quasi giornalmente.»

 


Il dato più evidente, che emerge da questa testimonianza, è il continuo muoversi dei lavoratori, da un cantiere che chiude a un altro che apre, un lavoro dunque sempre in bilico sul baratro della precarietà, i cui benefici erano volatili per l’economia trentina, come volatili erano le conquiste sindacali in questo settore, proprio per la grande mobilità dei lavoratori.

 

 

Scriveva Attilio Rigotti:

 

  

«[...] L’operaio invece entra in galleria, gli ordini gli sono impartiti con modi duri, magari con parole offensive [...]; vive in mezzo al fracasso delle rivoltelle e delle macchine e dopo otto ore consecutive [...] esce da quell’inferno irriconoscibile. Se c’è acqua esce bagnato fin sulla pelle, infangato da far paura agli uccelli [in mensa] trova la stufa fredda, il pasto mezzo freddo e allora occorre un bicchiere di vino e poi la grappa per riscaldarsi, poi ancora vino e allora addio ragionamenti! [...] Il lavoratore entra in camerata dove ha lasciato i vestiti tutti bagnati, dove le brande sono l’una vicina all’altra tanto da non poterci passare in mezzo. [...] Per lavarsi deve uscire sul piazzale all’aria fresca. I vestiti, i pastrani, gli stivali pieni di sudore vengono messi sopra i fornelli per farli asciugare, e là, in mezzo a quel profumo di dieci, quindici vestiti che asciugano, deve dormire.»

 

 

003 640x418A vivere in questo inferno, caratterizzato soprattutto dalla presenza continua dell’elemento acquatico, sono giovani di 18, 20 anni, per i quali non esiste nessuna garanzia, nessuna sicurezza.

 

Un inferno che già nel 1948 era stato descritto da Sisinio Tribus in un articolo su Il Proletario, nel quale il sindacalista si era soffermato sulle disumane condizioni di lavoro nei cantieri di Santa Massenza e Vezzano dopo un articolo de Il Popolo trentino che aveva sollevato il problema e invitato il sindacato a porvi rimedio in qualche modo.

 

 

«[...] XII. Che [la ditta] esige dai minatori due colate per turno e se sulle 8 ore del turno le due volate non sono eseguite non paga il tempo supplementare. XIII. Che non ha fuochini autorizzati: a caricare le mine, a brillarle, a maneggiare la munizione ed a controllare prima che gli operai riprendano il lavoro. XIV. Che nelle gallerie manca l’aria, per mancanza delle tubazioni necessarie. XV. Che la ditta sospende operai del getto per più giorni, senza iscriverli alla cassa integrazione salari.»

 

  

L’origine sociale dei lavoratori dei cantieri

 

 

Il lavoro di costruzione degli impianti iniziava prima di tutto con la realizzazione delle vie d’accesso ai cantieri e alle baracche dove venivano alloggiati i lavoratori. Nella seconda fase, tre o quattro grandi imprese assicuravano l’esecuzione degli appalti maggiori: le gallerie, il bacino, la centrale e i trasporti di materiale. Le ditte appaltatrici erano quasi sempre le stesse, tra le più importanti la Quadrio Curzio di Milano, la Giolai di Bassano, la Conci di Trento e la Busatti di Belluno: una volta terminata una centrale passavano a un’altra. Il lavoro sui cantieri era quasi sempre organizzato su tre turni, con una sola legge: fare presto.

 

 

«Gli operai impiegati nei cantieri erano di origine eterogenea, con proporzioni varianti da una costruzione all’altra. I veneti, i bellunesi in particolare, erano quasi sempre in maggioranza, anche i meridionali erano presenti: il resto era costituito da trentini provenienti dalle zone più povere della provincia. [...] quanto alla provenienza sociale, molti erano gli ex-contadini.»

 

  

002 455x640La questione dell’origine sociale dei lavoratori dei cantieri idroelettrici, a bene vedere, non è questione di lana caprina: il legame più o meno stretto con la campagna e dunque con l’origine contadina, può essere un elemento utile a spiegare la maggiore o minore disponibilità alla lotta sindacale. Per Fait e Zanella gli operai idroelettrici erano in gran parte «lavoratori part-time», nel senso che mantenevano uno stretto legame con la terra: la famiglia aveva spesso dei piccoli appezzamenti di terreno sui quali, nei periodi di inattività tra la fine di un cantiere e l’apertura di un altro, i lavoratori momentaneamente disoccupati tornavano a lavorare per integrare il reddito famigliare. Secondo un’altra interpretazione invece

 

 

 

«L’occupazione era sì temporanea, in quanto durava fino alla fine della costruzione, ma una volta completata una centrale si passava ad un’altra [...]. Questi operai, anche se di origine contadina, persero praticamente ogni contatto, anche fisico, con l’agricoltura, se si considera che restavano lontani da casa per tutta la settimana ed anche più.»

 

  

Anche Rino Battisti non manca di fare notare come, soprattutto con gli operai trentini, per i quali il contatto con la propria origine contadina era più stretto, fosse difficile costruire un percorso di presa di coscienza e di mobilitazione, visto che continuava ad esistere lo sfogo della campagna come elemento integratore del reddito operaio. Vi era però sui cantieri una larga parte di lavoratori che avevano ormai reciso questo legame, in particolare quelli provenienti da altre zone d’Italia, magari dal Sud, che si spostavano da una cantiere all’altro. Erano probabilmente questi i lavoratori più disponibili a lottare insieme al sindacato per il miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Emerge in modo chiaro come i grandi lavori idroelettrici degli anni ’50 portino in Trentino una variegata compagine operaia, fatta di persone provenienti da luoghi diversi e con differenti origini sociali. Un dato che ancora una volta permette di sottolineare la singolarità della situazione in questo particolare settore: l’immigrazione avviene in una provincia ancora chiusa e certamente non attrattiva in altri campi economici e che, anche nel periodo considerato, continuò a fornire braccia alla emigrazione europea. Secondo Aldo Gorfer, sono notevoli le conseguenze sulla popolazione delle valli investite dal fenomeno della «colonizzazione elettrica»:

 

 

«I lavori idroelettrici furono la prima fonte di lavoro di tipo industriale moderno della valle. Sollecitarono un’immigrazione di manodopera, promossero l’abbandono delle attività agricole convenzionali e il formarsi della figura del contadino-operaio [...].»

 

  

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Morire di lavoro*

 

 

«Disastrosa era la situazione dal punto di vista della sicurezza. I ritmi di lavoro erano elevati a causa del cottimo e della conseguente competizione tra gli operai [...] Questi fatti, uniti alla concentrazione di numerosi operai in poco spazio e alla carenza di adeguate misure di sicurezza, determinavano il verificarsi di numerosi incidenti sul lavoro, spesso anche mortali. Il discorso della salute poi era sconosciuto ed in effetti la stragrande maggioranza di quanti hanno lavorato nelle gallerie delle centrali è affetto da silicosi, malattia allora accettata come inevitabile.»

 

  

Bastano queste poche frasi a descrivere la realtà di morte alla quale i lavoratori dei cantieri idroelettrici erano confrontati ogni giorno. La frequenza degli infortuni nel settore idroelettrico trentino è in quegli anni di 2,48 volte quella del complesso delle altre attività industriali e la frequenza degli incidenti mortali è pari a 2,56 volte. Il periodo di avvio dei cantieri idroelettrici è quello più pericoloso, dal momento che si svolgono i lavori di scavo delle gallerie, delle dighe, del montaggio degli impianti, ecc.

  

 

Tra i motivi principali vi è il sistema di assunzione dei lavoratori che, a causa della forte disoccupazione, porta sui cantieri manodopera poco qualificata, spesso contadini che non hanno esperienza del lavoro in galleria. Elemento negativo è anche la forte rotazione del personale, non addestrato specificamente per un dato compito, con conseguenze intuibili sulla frequenza degli infortuni.

  

 

Anche l’accentuato ritmo di lavoro fa la sua parte: ritmi di consegna sempre più brevi richiesti alla ditta appaltante e maggiore concorrenza tra le imprese portano a una compressione dei tempi e alla sovrapposizione di lavori diversi, con conseguente diminuzione del fattore sicurezza.

 

  

Dal punto di vista tecnologico, negli anni 1946-47 la tecnica di lavorazione in roccia è la stessa di quella utilizzata 30-40 anni prima, anche se cominciano a diffondersi innovazioni che rendono il lavoro in galleria un po’ meno pericoloso. Negli anni ’50 si diffonde (anche se con molta lentezza) l’uso di martelli perforatori con iniezione ad acqua, diminuendo la quantità di polvere in sospensione nell’atmosfera, quindi anche il rischio di silicosi e aumentando la visibilità in galleria. Con l’uso del servo sostegno diminuiscono i contraccolpi causati dalla macchina e le conseguenze fisiologiche che comportano, mentre le pale caricatrici hanno sostituito l’uomo nelle gravose operazioni di sollevamento e caricamento del materiale e anche per la fase del getto sono stati introdotti miglioramenti che hanno reso meno pericoloso il lavoro.

  

 

Mentre nel 1950 lo scavo e la rimozione di un metro cubo di roccia richiedeva circa cinque ore a operaio, sei anni dopo le stesse operazioni ne richiedono in media due. Le cause principali degli incidenti mortali tra il 1952 e il 1954 sono soprattutto la caduta di persone, di materiale e le manovre con i vagoncini che servono a trasportare fuori dalla galleria il materiale di scarto.

  

 

005Tra i motivi di incidenti gravi vi è senza dubbio l’abituale utilizzo di mine: molto spesso, poi, lo scoppio inaspettato coinvolge un numero elevato di lavoratori. La questione degli incidenti sul lavoro è centrale nel descrivere la situazione del settore durante il periodo della costruzione delle grandi opere, perché illustra più di tante analisi o ragionamenti la compenetrazione di sviluppo e sottosviluppo rappresentato dai lavori per le centrali negli anni ’50 in Trentino. Da un lato i grandi gruppi nazionali dai fatturati miliardari, dall’altra cantieri che sono zone franche, nelle quali il sindacato non può entrare e la vita di un lavoratore ha un valore relativo, dal momento che le sue braccia possono essere sostituite in ogni momento grazie alla elevata disoccupazione.

 

 

 In un articolo del 4 febbraio del 1950, Sisinio Tribus mette la sua «verve» di polemista al servizio della denuncia di questa situazione. Bersaglio dei suoi strali, della sua caustica ironia, è la supposta libertà che riempie la bocca di tanti ma che non è che una pia illusione e che in realtà nasconde una dittatura economica la quale fa sì che i lavoratori abbiano timore nel denunciare le condizioni di insicurezza alle quali il datore di lavoro li costringe. Dopo aver raccontato tre casi di incidenti nei quali la paura del licenziamento agisce come stupefacente sulla coscienza degli operai, egli scrive:

 

  

«Queste cose avvengono nel Trentino e ne avvengono ben altre di peggiori. Siamo una provincia civile? Dimostriamolo. Un terzo degli accidenti non è dovuto alla fatalità, ed in questa affermazione sono di una modestia condannabile. È ora di finirla. L’ispettorato del Lavoro faccia il suo compito, la Regione assolva il suo. Il terrore che impedisce agli operai di difendere la loro vita, per paura dei licenziamenti, cessi. I licenziamenti devono venire controllati: non ammettiamo che si chiami libertà soltanto quella dei padroni [...]»

  

 

Proprio la rivendicazione del controllo da parte delle commissioni interne dei cantieri sui licenziamenti, sarà uno dei punti di maggior frizione fra il sindacato e le aziende. Meno di una settimana dopo l’articolo citato Il Proletario ritorna sul problema, con una analisi puntuale delle cause degli infortuni e in particolare sul fatto che i lavoratori non sono messi nelle condizioni di denunciare le situazioni di pericolo, per il divieto fatto alle organizzazioni sindacali di entrare nei cantieri. L’altro ostacolo alla denuncia era il diritto del datore di lavoro di licenziare «senza giusta causa», diremmo noi oggi, gli operai che si fossero battuti per condizioni di maggiore sicurezza, anche grazie all’esercito di disoccupati sempre pronti a sostituire un lavoratore troppo riottoso, così come le liste nere:

 

  

«In certi complessi esiste il divieto per le ditte appaltatrici di assumere operai provenienti da altre ditte del medesimo complesso, senza previo accordo. Questa misura lega l’operaio come un servo della gleba al suo padrone e rende il licenziamento ancora più temibile.»

 

  

001 601x480Cause «oggettive» degli incidenti erano invece il lavoro a premio, mezzo per ottenere a buon prezzo alti profitti; i premi di produzione agli assistenti che avevano facoltà di licenziare; la cattiva attrezzatura e la poca preparazione tecnica di alcune ditte.

  

 

Per discutere di tutti questi problemi e proporre soluzioni, il Sindacato edili della Camera del Lavoro, in accordo con le altre organizzazioni sindacali invitò uomini politici, personalità, giornalisti e sindacalisti ad una riunione apposita allo scopo di affrontare urgentemente le questioni legate alla sicurezza. Sull’Alto Adige venne pubblicato un appello in cui si elencavano in quattro punti le principali cause degli incidenti: il divieto per le organizzazioni sindacali di entrare nei cantieri; il diritto del datore di lavoro di licenziare senza controllo; la disoccupazione e le liste nere. La annunciata riunione si svolse l’11 febbraio del 1950 nella sala del Consiglio Comunale a Trento.

 

  

Dall’incontro esce la proposta di costituire una Commissione contro gli infortuni sul lavoro, di cui avrebbero dovuto far parte la Regione o la Provincia, l’Ufficio del Lavoro, il Corpo degli ingegneri, l’Istituto infortuni, la Cassa Malattia, le organizzazioni sindacali e l’Ispettorato del lavoro, il quale avrebbe così potuto trovare i mezzi, i fondi e il personale necessario per eseguire controlli efficaci sui cantieri. Il 15 dello stesso mese, con un comunicato pubblicato sull’Alto Adige, l’Associazione Industriali risponde alle accuse mosse agli imprenditori dagli edili della CGIL punto per punto, difendendo i propri associati e insieme a loro il divieto fatto ai sindacalisti di visitare i cantieri, il diritto di licenziamento e le liste nere, negando che i lavoratori fossero costretti a restare in silenzio sulle proprie condizioni di lavoro.

  

 

Il comunicato pubblicato dall’Alto Adige è piuttosto interessante, perché permette di mettere in rilievo la concezione del cantiere nella mentalità degli industriali. I sindacalisti non vi possono entrare perché

 

  

«[...] tale accesso è del tutto incompatibile col principio che esclude dalle aziende industriali gli estranei al lavoro [...] e precisato che tale principio deve essere dagli industriali gelosamente tutelato proprio a garanzia di quella tranquillità che è indispensabile al normale e proficuo svolgimento del lavoro, premesso che il libero accesso è riconosciuto [...] agli organi dell’Ispettorato del Lavoro, non si vede quale utile opera possano fare in merito alla prevenzione sugli infortuni gli organizzatori sindacali.»

  

 

004 536x480L’idea che emerge da queste poche righe è quella di un cantiere pensato come luogo privato, che non deve essere sottoposto a nessuna regola esterna, se non quella imposta dal datore di lavoro. In questo senso il sindacato è un intruso, che non ha nessun diritto ad intromettersi negli affari dell’azienda. Contro questo modo di interpretare le relazioni aziendali secondo il quale il lavoratore, una volta entrato in cantiere, perde i diritti che gli vengono riconosciuti all’esterno, come quello di organizzarsi sindacalmente, dovrà fare i conti Rino Battisti. Sono parecchi gli episodi dai quali emerge chiaramente la volontà dell’azienda di impedire al sindacato di partecipare a qualsivoglia tipo di trattativa. La conseguenza più drammatica di questo modo di intendere i rapporti aziendali riguarda, ancora una volta, gli incidenti sul lavoro. Molto spesso, secondo la testimonianza dello stesso Rino Battisti, la notizia di un incidente non usciva nemmeno dal cantiere e gli operai comunicavano il fatto al sindacalista a voce o attraverso foglietti scritti a mano. In uno di questi, conservato con cura dal Battisti, si legge:

  

 

«Bazzoli Prospero di anni 35 con figli 4 da Roncone. Lav. pr. SALCI (c. Buazzo). Rimaneva schiacciato fra due vagoncini, dopo mezz’ora spirava sul Cantiere»

  

 

Nonostante i risultati ottenuti grazie all’iniziativa sindacale del febbraio 1950 siano modesti, limitati a un dibattito poco incisivo, l’incontro è un ulteriore indizio della forza politica conservata dal Sindacato Edili della Camera del Lavoro, che riesce ad imporre alla LCGIL la propria iniziativa, rendendola così unitaria. Colpisce in questo caso il silenzio della Regione su un argomento, quello degli incidenti sul lavoro, che se affrontato con serietà dall’ente pubblico avrebbe portato probabilmente a uno scontro con gli imprenditori edili presenti sul territorio del Trentino - Alto Adige.

  

 

Valentini Ferruccio** classe 1924 di Ala  ricorda con questa testimonianza quel lontano periodo.

 

“.....Ero presente al brillamento della prima mina della galleria di collegamento che da Chizzola raggiungeva perpendicolarmente il tratto principale. Era una bretella circa a metà strada tra Mori e Campagnola ed era necessaria per lo sgombero del materiale di scavo. Mi avevano affidato una vecchia auto carretta militare SPA di scarsa capienza, ma con quella feci pochi trasporti, infatti venne sommersa dal carico di una pala di un grosso Caterpillar e mi diedero allora un GM tre assi con il quale provvedevo con altri 10-12 camionisti allo sgombero del materiale di scavo per depositarlo nella zona dell'attuale Zincheria. Ricordo la grande galleria percorribile dai pesanti autocarri Federal , erano dei Dumper, con un cassone di 5 mc. Le volate erano continue circa una ogni 4 ore con una serie di grossi fori che penetravano per oltre 6 metri nella parete, Noi camionisti tra una mina e l'altra dormivamo o meglio riposavamo in una camerata prossima agli scavi, Pronti alla chiamata. Spesso l'attesa era occupata preparando i candelotti di tritolo contrassegnati da precise numerazioni, ma li consegnavamo ai minatori. Eravamo in tanti , la maggior parte proveniva dai grandi lavori ultimati a Malles e in altre zone della Venosta, molti i Nonesi; Ala era sovraffollata di operai e tecnici dei cantieri ed erano ospitati a pagamento presso le famiglie che facevano “Pensione”, così si diceva. Non avevamo protezioni, il fumo era sempre presente, gli aspiratori  c'erano ma non sempre efficienti, i ritmi di lavoro erano alti e non esistevano i sindacati. Dopo sei mesi mi sono licenziato dalla ditta dove lavoravo per non aver voluto pagare una multa data a tutti gli operai del mio turno per il danneggiamento di un nastro trasportatore. Andai poi in un'altra ditta e nel '55 a centrale ultimata fui assunta dall'allora Capo Centrale Betti, del quale ho ancora un buon ricordo. “

                                               

 

********

  

Poco o nulla rimane delle vicende umane di quanti hanno lavorato alla Costruzione della Centrale di Campagnola e per questo ancor più meritevole di plauso è l'iniziativa per la loro commemorazione, per l'opera  esempio monumentale di efficienza e capacità ma soprattutto per quanti per essa vi hanno lasciato la vita.

 

  

{besps}centrale campagnola morire lavoro{/besps}

 

  

Considerazione finale

 

 

Un auspicio che questa come tante altre testimonianze del nostro passato non scivoli in quell'indifferenza che  con sempre maggiore frequenza accompagna le attività della Pubblica Amministrazione .

 

Sarebbe imperdonabile se questo dovesse succedere  per disattenzione, ma assolutamente esecrabile se fosse misconosciuta l'importanza della conservazione della memoria ;  anche di quella che per molte famiglie è ancora Cronaca.

 

Ben vengano le rimembranze e le rievocazioni di glorie passate, il ricordo e la celebrazione di trascorse virtù purché non si considerino da archiviare fatti come quelli descritti , magari solo perché sono “tristi” e non portano lustro.

 

  

Cordialmente

  

RL e MC

 

 I Brani  sono tratti dall'articolo "Il Trentino degli anni '50: dipendenza e sottosviluppo" di Mattia Pelli, autore di “ Dentro le Montagne “.

 

**testimonianza raccolta il 29.11.2012

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